
Rossi Anna Maria Sino al 1997, le norme richiedevano alle organizzazioni sindacali del settore pubblico il raggiungimento della soglia del 5% dei voti validi nelle elezioni di categoria (Consigli di Amministrazione dei Ministeri e Consigli della Pubblica Istruzione, nazionale e provinciali, per la Scuola). Nel periodo intercorrente fra un'elezione e l'altra il calcolo veniva, con un tetto analogo, operato sui sindacalizzati. Il raggiungimento del 5% su lista nazionale significava per le organizzazioni di comparto poter sedere al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto di categoria e per le contrattazioni decentrate di primo livello; una soglia analoga su lista provinciale garantiva la partecipazione alle trattative decentrate locali o di singola "unità produttiva".
La legge n.° 396 del 4 Novembre 1997, ha stravolto ogni regola. Innanzitutto con un meccanismo elettorale farsesco che impedisce la presentazione di liste nazionali, imponendo unicamente liste decentrate e delegando alle OOSS "maggiormente rappresentative" la scelta dei tempi e del rito. Così, ad esempio nella Scuola (12.000 sedi centrali), CGIL, CISL, UIL, SNALS e Gilda impongono la presentazione di una lista per istituto, e meno liste si presentano, meno voti si possono raccogliere. Il confronto democratico fra "maggiormente rappresentativi" e sindacati di recente istituzione è del tutto viziato: ai primi – oltre la fruizione monopolistica di aspettative annue pagate dallo stato, permessi, diritto all'informazione ed alla propaganda – viene accordato il diritto di indire assemblee retribuite in orario di servizio; agli altri tale possibilità è assolutamente interdetta. Va da sé che la "maggiore rappresentatività è irraggiungibile ai sindacati di recente istituzione, che non possono neppure presentare il proprio programma agli elettori.
Vengono perciò elette "Rappresentanze Sindacali Unitarie" unicamente nei luoghi di lavoro, titolate a trattare solo su questioni minimali, sulla falsa riga di contratti nazionali e provinciali decisi dai rappresentanti nominati dalle burocrazie sindacali senza alcun controllo elettivo. Di contro, i firmatari del contratto nazionale hanno comunque titolo alle contrattazioni decentrate a livello regionale e provinciale, nonché di singola unità funzionale o produttiva (anche a voti zero!). Nel privato, peraltro, con accordi specifici si sono dotati della riserva del 33%, percentuale garantita indipendentemente dai risultati elettorali.
Si rende praticamente impossibile alle organizzazioni di nuova istituzione e che adottano una differente filosofia associativa, alle quali è negato a priori ogni strumento di sostegno (persino brevi permessi sindacali), la competizione con le vecchie strutture confederali, che possiedono nel pubblico impiego un esercito di circa 5.000 "distaccati". Inoltre le OOSS non "maggiormente rappresentative", con l'interdizione rispetto alla convocazione di assemblee in orario di servizio, non solo non possono farsi campagna elettorale, ma neppure trovare i candidati ed i sottoscrittori necessari a presentare le liste nei posti di lavoro. La cosa è persino ridicola, visto che la somma delle firme richieste per validare le liste raggiunge numeri strabilianti (nella scuola occorrerebbero 65.000 presentatori: più dei voti richiesti per raggiungere il 9.5% nei risultati finali e più di quanto sia necessario per proporre al Parlamento una legge di iniziativa popolare).
Si tratta di numeri congrui per le singole unità amministrative (2% degli aventi diritto), ma assolutamente improponibili nell'ottica di una sommatoria nazionale. Sarebbe come se – nelle elezioni politiche – i partiti fossero obbligati a presentare una lista per ogni seggio elettorale, dovendo così raccogliere almeno 600.000 firme per coprire tutto il territorio nazionale.
In realtà diventerebbe imbarazzante per quelli che oggi sono stimati quali sindacati "maggiormente rappresentativi", competere ad armi pari, come le regole democratiche invece imporrebbero. Con elezioni nazionali significherebbe passare dal monopolio al pluralismo ed essere, in più, costrette a far scegliere direttamente dai lavoratori anche le proprie delegazioni trattanti.
Ma il marchingegno illiberale non si conclude qui. Al fine di favorire i sindacati consolidati ed esistenti dal dopoguerra a scapito di quelli di recente istituzione, è stato inventato un meccanismo ulteriore, assolutamente indecente. Si tratta della cosiddetta "media": il 5% non viene infatti calcolato più sui voti o sugli iscritti, ma facendo media fra i due parametri. In tal modo la soglia sul dato elettorale sale automaticamente, dovendo i sindacati nuovi compensare la ovvia carenza di iscritti a fronte delle organizzazioni esistenti da almeno quarant'anni. Se si fosse adottato qualcosa di simile per accedere al Parlamento si sarebbe gridato al colpo di stato, anche perché così non si consentirebbe di fatto la nascita di alcun nuovo partito. Nessuno accetterebbe mai il computo spurio fra voti ed iscrizioni elevato a regime. Significativo è che il 10% dei sindacalizzati (35%) equivale alla metà esatta del 10% sui votanti (70%), utile ad un sindacato di nuova formazione per ottenere la media del cinque per cento richiesta (e se non il 10%, sarà l'8 o il 9%). In tal modo, CGIL, CISL e UIL, che in decenni si sono garantite comunque il 10% dei sindacalizzati, resterebbero "rappresentative" anche qualora non raccogliessero voti!
I sindacati che non raggiungono tali folli parametri vengono privati di ogni diritto e spazzati via persino dal piano decentrato, anche se, come l'Unicobas Scuola, possiedono comunque il 10% dei voti nelle elezioni per il Consiglio Scolastico Provinciale ed il 5% delle deleghe nell'ambito di numerose province - come a Roma dove questo sindacato rappresenta il doppio dei lavoratori rispetto a UIL e Gilda - e regioni. Un sindacato può anche avere il 60% delle deleghe su base provinciale e non essere ammesso a nessuna trattativa decentrata.
In Italia si dibatte molto di federalismo, ma il federalismo viene espunto dalla democrazia del lavoro. L'unica possibilità di sopravvivenza a livello locale che venne prevista dal legislatore solo per l'anno 2000, in prima applicazione, venne legata al requisito dell'affiliazione di almeno il 10% dell'intera forza lavoro. Cosa che, in una zona di media sindacalizzazione (35%) come il pubblico impiego, non era e non è data in Italia in nessuna provincia neanche alle due più forti Confederazioni: CGIL o CISL. Se per far parte di un Consiglio Comunale fosse obbligatoria l'iscrizione del 10% degli aventi diritto al voto, non esisterebbero liste locali in grado di competere. Le norme nazionali sulla rappresentanza sindacale, se traslate in politica, avrebbero come effetto per i partiti che non possedessero da Canicattì a Bolzano un quorum nazionale calcolato sul 5% di media fra voti ed iscritti (sic!), non solo l'esclusione dal Parlamento, ma anche da ogni consiglio regionale, provinciale, comunale o municipale e, di concerto, da ogni permesso per fare propaganda, manifestare, tenere comizi ed ottenere qualsivoglia rimborso elettorale, visto che in campo sindacale vengono negati tutti i diritti, anche quello d'affissione all'interno dell'unità funzionale o produttiva. Altro che par condicio !!! Eppure, in ambito sindacale, non si dà luogo alla creazione di "governi" e non è quindi in gioco la "stabilità" dell'esecutivo. Un sindacato, al quale la Costituzione non richiede altro che uno statuto registrato, esiste per far valere i diritti dei rappresentati, non per legiferare. Si ricorda che, differentemente, per entrare in Parlamento sono richieste percentuali ben più basse (4%, ma solo sui voti validi), così come per aver accesso al finanziamento pubblico dei partiti (1%).
Mentre in Europa sindacati come l'Unicobas hanno pieni diritti, nel "Bel Paese" non viene fornita ai sindacati "sufficientemente rappresentativi" neanche un'ora di permesso retribuito. In Francia, ad esempio, con un'analoga percentuale di voti riportata nelle elezioni professionali – che nel nostro Paese sono state soppresse ed i cui risultati la legge italiana oggi esclude comunque per il calcolo della rappresentanza – verrebbero concesse 21 aspettative annue a carico dello stato. L'Italia, sotto il profilo dei diritti sindacali, è più prossima alla Polonia dei tempi del generale Jaruzelskij, quando venne messa fuorilegge "Solidarnosc" o al Cile di Pinochet.
Come accennato, per paura che CGIL, CISL, UIL, SNALS e Gilda perdessero ugualmente l'egemonia sindacale sul mondo dell'istruzione (retribuito al livello più basso del ventaglio europeo), all'Unicobas (ed ai sindacati di base) viene negato dall'Ottobre '99 persino il diritto di tenere assemblee in orario di servizio in qualsiasi scuola (anche laddove questo sindacato dispone nel singolo istituto di un seguito di 50 iscritti con trattenuta alla fonte su 100 docenti). Persino in quelle scuole ove, avendo presentato una lista, il sindacalismo di nuova istituzione abbia una o più RSU elette. Tutto ciò avviene in aperta violazione di quanto stabilisce lo Statuto dei Lavoratori, che assegna la facoltà di indire assemblee in orario di servizio alle Rappresentanze singolarmente o disgiuntamente (RSA alle quali, per effetto del D.L.vo 29 / 93, sono subentrate le RSU con medesimi diritti).
Trattasi di una vera e propria operazione "di regime" statuita per contratto dalle OOSS firmatarie dei principali CCNL nazionali di categoria, in pieno conflitto d'interessi perché eliminano ogni diritto per i sindacati di nuova istituzione. Operazione che, seppur sanzionata dalla magistratura con almeno 14 sentenze di condanna per comportamento antisindacale in capo ai dirigenti scolastici responsabili del diniego opposto all'Unicobas relativamente all'indizione di un'assemblea in orario di servizio, viene reiterata di accordo in accordo. Le OOSS hanno di fatto assunto la facoltà di sostituirsi alla legge: le norme sulla privatizzazione del rapporto di lavoro nel P.I. garantiscono comunque l'applicazione degli istituti contrattuali, anche se contra legem (e le sentenze hanno in Italia purtroppo valore applicativo solo una tantum e per le singole istituzioni scolastiche alle quali si riferiscono).
Il caso della scuola è emblematico di norme ritagliate sugli interessi dei Confederali: nei comuni di Roma, Milano e Napoli (50.000 addetti ognuno), i Confederali organizzano elezioni che prevedono la presentazione di un'unica lista con 200 firmatari (la concorrenza del sindacalismo di base è troppo bassa...). Nei provveditorati corrispondenti, che annoverano una pari quantità di dipendenti, occorre invece produrre almeno 600 / 700 liste (una per scuola), con 3.500 firme ed altrettanti candidati (quando difficilmente si raggiungeranno 35.000 votanti complessivi).
Per quanto sopra indicato, il presente disegno di legge prevede il calcolo della rappresentatività per il tramite di elezioni alle quali si concorre mediante liste nazionali, quindi regionali, provinciali (per la delegazione trattante di tali livelli) e di singolo istituto, unità produttiva o funzionale, in questo caso con l'elezione di rappresentanze sindacali unitarie (per il contratto decentrato di ultimo livello).
Per le motivazioni su ascritte, il presente disegno di legge prevede il calcolo della rappresentatività solo sul dato elettorale puro Un altro elemento inaccettabile è rappresentato dalla disparità di trattamento fra sistema pubblico e privato, come per esempio nel caso delle aspettative sindacali a carico delle OOSS (ma con contributi pensionistici pagati dallo stato), concesse dalla L. 300/70 a chiunque, ma oggi riservate (persino quelle...!) nel pubblico dalla legge vigente sulla rappresentanza sindacale solo ai "maggiormente rappresentativi". Per tale motivo, nel presente ddl si prevede di restituire piena vigenza alla L. 300/70 pur su tale aspetto, superando così un'assurda sperequazione, anche questa già sanzionata da specifiche sentenze.
Va poi segnalato che i pensionati italiani possono iscriversi unicamente alle OOSS che sono interne al CNEL, organismo al quale si accede solo per nomina politica e senza calcolo alcuno della rappresentatività. Vale a dire che persino il segretario nazionale di una sigla non presente nel CNEL, quando andrà in pensione, non potrà decidere di iscriversi al proprio sindacato, poiché – contro la sua volontà – col sistema attuale potrà scegliere solo una delle organizzazioni alle quali lo Stato assegna il monopolio sui pensionati (che sono, guarda caso, la maggioranza fra gli affiliati a CGIL, CISL e UIL...!). Si tratta di una palese violazione della libertà associativa sancita dalla Costituzione. Con il presente ddl si liberalizza l'iscrizione del personale in quiescenza.
L'elemento principe per la determinazione della rappresentanza è, in uno stato democratico e di diritto, il meccanismo elettorale. In ogni settore del mondo del lavoro è prevista, nel presente disegno di legge, la realizzazione di elezioni di categoria specificatamente per la rappresentanza sindacale, tramite le quali vengono chiamati al voto gli addetti, ivi compresi i lavoratori con contratto a tempo determinato, precari e prestatori d'opera. Da tali consultazioni emergerà triennalmente, il piano dei sindacati rappresentativi, categoria per categoria, a seconda dei suffragi ricevuti. Viene così restituita alla base del mondo del lavoro la decisionalità nella scelta delle organizzazioni sindacali riconosciute istituzionalmente.
La titolarità a trattare ed a godere delle libertà sindacali costituzionalmente tutelate, trattandosi della rappresentanza di tesi, obiettivi e bisogni dei lavoratori, va estesa in termini di espressione plurale e pluralistica: per tale motivo si propone la sostituzione della dizione, presente nello statuto dei lavoratori, di "maggiore rappresentatività" con quello di "sufficiente rappresentatività". La rappresentazione di interessi collettivi è necessariamente variegata e poliedrica e non può, né deve, essere ricondotta al regime di monopolio cui è stata assoggettata dalle grandi centrali sindacali, oggi peraltro non più in grado di rappresentare da sole tutto e tutti a conseguenza delle profonde mutazioni avvenute nel mondo produttivo e della grande complessità delle moderne democrazie.
Al fine di scongiurare un irrigidimento senza sbocchi delle tensioni e delle esigenze nel mondo del lavoro, occorre realizzare una sintesi ad un livello più alto, tramite il confronto di rappresentanze democraticamente elette riportate ad un tavolo comune di dialogo. Cosa che non è possibile con l'esclusione aprioristica della formalizzazione di tesi legittime, espressioni di contraddizioni non sopprimibili, ma solo mediabili.
Il livello della "sufficiente rappresentatività", l'unico che risponde ai criteri del pluralismo e della democrazia del lavoro (in campo sindacale non si tratta di assicurare stabilità di "governo", ma la completezza nella rappresentazione di interessi legittimi), va quindi definito in modo certo, perché sia espressione di interessi reali e suffragati.
Per questo motivo, anche per evitare una eccessiva frammentazione, si è stabilita una soglia minima per l'acquisizione della piena titolarità sindacale, identificata nel 3 per cento dei voti validi nelle elezioni di categoria per l'accesso alle contrattazioni nazionali, eliminando ogni altro ostacolo che non sia quello della volontà elettorale dei lavoratori.
Dal livello nazionale discende quello provinciale e decentrato, sino alla singola unità produttiva o funzionale. Anche a tali livelli è necessario garantire adeguata rappresentanza alle istanze dei lavoratori. Per il livello decentrato, sicuramente più "raggiungibile", la soglia della rappresentanza è fissata nel 4 per cento dei voti validi, raccolti in specifiche elezioni, collaterali a quelle nazionali. Lo "schema" elettorale è mutuato dalle votazioni già previste in passato nel pubblico impiego per l'elezione degli organismi quali i soppressi consigli di amministrazione o, nella scuola, per il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, i consigli scolastici provinciali (organismi ancora in carica ma non più eletti dal 1997) e quelli distrettuali (eliminati).
Le elezioni di categoria per la rappresentanza, con scansioni improrogabili sia per il pubblico impiego che per il privato, sono poste sotto il diretto controllo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e si espletano tramite la costituzione di apposite commissioni elettorali, cui hanno titolo a partecipare, tramite propri rappresentanti, tutte le liste presentate.
Altra possibilità, per colmare il vuoto di controllo della rappresentanza fra una elezione e l'altra, è quella del raggiungimento, ai vari livelli (nazionale 3 per cento e decentrato 4 per cento), di una percentuale di iscritti pari ad analoghe percentuali rispetto al totale dei sindacalizzati del relativo bacino di riferimento.
La "sufficiente rappresentatività" di primo livello raggiunta in due comparti/categorie di contrattazione afferma una "maggiore rappresentatività" di fatto che determina un riconoscimento ulteriore dei sindacati, ma tale condizione non può essere un "lasciapassare" per ogni comparto/categoria a chi risulti privo di una "minima rappresentatività", testimoniata da una diffusione territoriale appropriata, specificatamente anche negli altri settori. Per questo motivo può venire convocato a trattare su altri comparti/categorie chi ne ha già due di diritto, ma solo se dimostra una consistenza associativa nazionale relativa al nuovo settore che escluda la tentazione di una presenza strumentale senza interessi diretti alla difesa dei lavoratori della nuova area professionale. Viene così contemperato il disposto della Corte costituzionale, che intende "premiare" i sindacati estesi ed intercategoriali, nella presunzione di una maggiore tutela degli interessi generali, senza per questo imporre diktat di una categoria sull'altra, esercitati tramite una rappresentanza "virtuale" in contrattazioni relative a settori ove non si è per nulla presenti.
Le organizzazioni intercategoriali maggiormente rappresentative, proprio perché espressione di una più alta sintesi di interessi collettivi, devono anzi fruire del diritto, garantito per legge, di venire convocati dal Governo in occasione di grandi manovre economiche o normative che investono contemporaneamente più ambiti lavorativi.
In ogni caso, ogni disparità di trattamento va eliminata anche per l'ingresso nel CNEL, fino ad oggi ottenuto in modo del tutto discrezionale e qui concesso a tutte le OOSS maggiormente rappresentative. Va ancora segnalato che le organizzazioni sindacali rappresentate nel CNEL godono di privilegi di rappresentanza dai quali le altre sono escluse: in particolare, l'iscrizione dei pensionati può essere attivata solo ed unicamente dalle organizzazioni sindacali presenti nel CNEL. Specialmente tale diritto deve essere esteso erga omnes, perché la situazione attuale determina una palese violazione del diritto del lavoratore in quiescenza di scegliere senza condizionamenti a chi associarsi.
Nelle categorie del settore pubblico e privato, in ogni scuola, ufficio o unità produttiva, si prevede – come già attualmente disposto per legge solo per il sistema pubblico – l'elezione di rappresentanze sindacali unitarie, anche queste secondo la formula "ogni testa un voto", secondo la logica democratica che impone che tutti i lavoratori elettori siano anche eleggibili. Questo per garantire, accanto alle rappresentanze sindacali aziendali previste dalla legge n. 300 del 1970, un consiglio con poteri trattanti e che assegna agli eletti, secondo il criterio proporzionale e senza le quote di salvaguardia oggi concesse da accordi pattizi alle organizzazioni sindacali "maggiormente rappresentative", i pieni poteri sindacali e la libertà di espressione e critica anche rispetto al consiglio stesso. Concordemente con quanto previsto dalla L. 300/70, ogni singolo componente delle RSU dovrà poter fruire del diritto di convocare assemblee in orario di servizio, nonché del diritto-dovere di esprimere la propria opinione, differentemente da quanto prevedono invece i vigenti accordi pattizi, che dispongono un falso ed appiattente unanimismo.
Scopo del presente disegno di legge è, in ultima analisi, quello di ampliare la democrazia sindacale e la parità di trattamento fra le diverse posizioni sindacali; di riconsegnare finalmente ai lavoratori la piena titolarità a decidere chi li rappresenta, siano sindacati o liste spontanee che abbiano dimostrato elettoralmente la propria consistenza associativa, nello spirito di un'autorappresentazione della democrazia del lavoro, finalmente sottratta sia a logiche burocratiche che ad ingiuste tutele monopolistiche fuori da ogni controllo democratico.
La tutela si estende, anche dopo la prima sigla dei contratti, nell'automatismo del referendum, disposto per legge e vincolante sulla validità degli accordi stessi. Onde evitare la validazione di accordi tramite referendum-farsa, gli effetti intervengono solo a fronte di una partecipazione pari a più del 50 per cento degli aventi diritto.
La titolarità dei diritti sindacali viene estesa direttamente ai lavoratori, segnatamente per la possibilità d'indizione di assemblee in orario di lavoro, diritto che con la presente legge viene doverosamente restituito anche a tutte le OOSS senza distinzioni determinate dalla rispettiva rappresentatività, nonché concesso tramite raccolta di firme nelle unità produttive o funzionali. Relativamente al monte ore annuo, che oggi in molti settori viene esaurito indipendentemente dalla partecipazione o meno del lavoratore alle assemblee indette, si prevede che deve essere invece il soggetto a decidere a quali assemblee partecipare, gestendo così il proprio monte ore a sua disposizione. La ratio di tale previsione normativa è elementare: la pluralità dei soggetti titolata ad indire assemblee retribuite in orario di servizio non determina infatti alcun aumento del monte ore annuo stabilito in sede di contratto nazionale per ogni singolo appartenente ad una categoria. La parte datoriale continuerà a provvedere, esattamente come è oggi previsto, al conteggio delle ore utilizzate da ogni lavoratore, che potrà fruire del diritto solo sino all'esaurimento del monte ore stesso. Quanto viene qui sancito ha una grande importanza nel ristabilire democratiche relazioni sindacali, dal momento che allo stato attuale la titolarità di fruizione del monte ore, assegnata dalla L. 300/70 in capo al singolo lavoratore, è stata surrettiziamente negata da una prassi indotta da contratti di categoria che negano il diritto di scelta. Se, infatti, il Contratto Collettivo Nazionale Quadro del 7.8.1998 "sulle modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi, nonché delle altre prerogative sindacali" (CCNQ) nel pubblico impiego, siglato dalle OOSS "maggiormente rappresentative" rispetta (titolo II, art. 2, comma 2; parte II, art. 10, comma 1) quanto disposto in merito dalla L. 300/70, affermando testualmente che il diritto di indire assemblee in orario di servizio spetta alle RSU "congiuntamente o disgiuntamente", le stesse OOSS hanno – nei contratti di categoria che pur si rifanno per gerarchia delle fonti a detto CCNQ – imposto come unica possibilità la convocazione di assemblee da parte delle RSU "congiuntamente". Viene così negato il diritto del singolo eletto di convocare assemblee retribuite in orario di servizio. In tal modo s'afferma un monopolio assoluto in capo alle OOSS "maggiormente rappresentative", che concentrano sia il diritto di convocare assemblee in proprio, come sigla, anche quando sono minoritarie (o non hanno alcun eletto fra le RSU), sia quello di esercitare un assurdo potere di veto sulle assemblee che intenderebbero convocare eletti in liste di sindacati non maggioritari ma che nella singola unità funzionale sono evidentemente rappresentativi. Viene infatti loro negato il placet dagli altri, persino quando questi non rappresentano che un membro su tre: in tal modo non possono mai interloquire con i propri elettori. Viceversa, se la minoranza è eletta nelle liste di un sindacato "maggiormente rappresentativo", questa può convocare assemblee in proprio agendo come sigla sindacale.
Nella presente legge, l'agibilità sindacale di base è stata lasciata a tutte le organizzazioni (ex articolo 14, della legge n. 300 del 1970): la libertà associativa, costituzionalmente tutelata, non può venire eliminata.
Al sindacato di nuova costituzione deve essere consentito di poter far conoscere il proprio programma e di propagandarlo, né si può permettere che non gli vengano neppure effettuate le trattenute alla fonte liberamente sottoscritte dai lavoratori se queste vengono praticate agli altri sindacati (come avviene nel settore privato).
Infine s'intende ribadire – a fronte di inique previsioni normative recentemente avanzate provvisoriamente nel settore dei trasporti – l'ineludibilità del diritto di sciopero per tutti i lavoratori, riaffermando che esso può solo essere normato, ma mai subordinato a coefficienti di rappresentatività, neppur richiesti come "gradimento" verso lo sciopero da indire. Il diritto di sciopero è diritto indisponibile e come tale costituzionalmente tutelato e non può essere assoggettato a criteri legati alla rappresentatività del sindacato che lo indice, tanto più che tale previsione non avrebbe ratio alcuna, visto che un sindacato debole produce di norma uno sciopero debole ed il "gradimento" all'astensione dal lavoro lo si esprime con l'aderirvi o meno. Le norme, che pure esistono, sulla regolamentazione del diritto di sciopero, come la L. 146/90 e successive modificazioni, non possono e non devono divenire un pretesto per selezionare la rappresentatività sindacale, cosa che invece è materia di tutt'altro livello, come ribadisce la presente legge.
Solo garantendo nel contempo il pluralismo sindacale e le libertà sindacali per i singoli lavoratori, può realizzarsi l'obiettivo di una più alta civiltà del lavoro nel nostro Paese
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