giovedì 25 aprile 2013

SOLITE INFAMIE




Sempre nel ricordo di Piazzale Loreto

SOLITE INFAMIE

Questa volta ad opera di Paolo Mieli

di Filippo Giannini

  
Ė vero: ho un caratteraccio! Sarà che ho ancora dentro di me lo spirito del Balilla che non sopporta le vigliaccate. Mi riferisco alla trasmissione di Ballarò del 23 aprile 2013, quando in un intervento del direttore de Il Corriere della Sera, Paolo Mieli, commentando uno dei tanti inciuci riguardanti il connubio PD/PdL, ebbe a ricordare (cito a memoria): <D’altra parte anche nel 1944, Togliatti rientrato in Italia si alleò con la Democrazia Cristiana e nel 1976 Il Partito Comunista di Berlinguer si alleò con Aldo Moro>. Poi il signor Mieli non poteva mancare di ricordare (e te pare!?) che Mussolini portò l’Italia allo sfascio della Seconda Guerra mondiale e alle infami leggi razziali. Per prima cosa osservo: non è possibile che un simile personaggio non conosca la Storia vera, e quindi la falsità di quanto asserisce.
   Proviamo a dimostrare quanto sostengo.
   Come e perché si giunse alla Seconda Guerra mondiale. Lo storico Rutilio Sermonti attesta (L’Italia nel XX Secolo): <La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia>.
   Nella Conferenza di Ginevra sul disarmo (febbraio 1932), alla quale parteciparono sessantadue Nazioni, l'Italia era rappresenta­ta da Dino Grandi e da Italo Balbo. Grandi, a nome del popolo italiano, sostenne il progetto di una parificazione al livello più basso degli armamenti posseduti dalle singole Nazioni. Venne inoltre esposto il progetto mussoliniano tendente all'abolizione dell'artiglieria pesante, dei carri armati, delle navi da guerra, dei sottomarini, degli aerei da bombardamento, in altre parole la mes­sa al bando di tutto ciò che avrebbe potuto portare ad una guerra di distruzione.
Di fatto, la Conferenza non trovò sbocco alcuno per le oppo­sizioni di Francia e Germania.
Possibile che il signor Mieli non ricorda che Mussolini propose il Patto a Quattro (7 giugno 1933), proprio per integra­re, con un patto politico, l'Europa, mediante un diretto­rio delle quattro Potenze: Inghilterra, Francia, Germania e Italia. Il documento propositivo di Mussolini cominciò a circolare nei tre Stati interpellati. Il documento ebbe successo di siglatura, ma fallì quando, presentato per l’approvazione ai parlamenti inglese e francese la siglatura non fu rispettata e decadde definitivamente a Stresa nel 1935. Mussolini camminava nella tradizione romana, carolingia e cattolica: aspirazione antica sempre delusa. Mussolini aveva ammonito con lungimiranza: “Fare crollare la pace in Europa significa fare crollare l’Europa”>.
   Visto che ci siamo, signor Mieli, perché non ricordare che Mussolini, quale Capo del Governo italiano si fece, ancora una volta, promo­tore di un incontro che si svolse a Stresa, nei pressi del Lago Maggiore, tra l'11 e il 14 aprile 1935, con i rappresentanti delle tre Potenze alleate della prima guerra mondiale: l'Italia (Mussolini), Gran Bretagna (MacDonald, J. Simon) e Francia (Laval, Flandin).
Al termine dei lavori fu stilato un documento nel quale i tre Governi constatarono che il ripudio unilaterale posto in essere dal Governo tedesco, nei suoi obblighi per il disarmo, avrebbe potuto pregiudicare la pace in Europa e si dichiararono in perfetto accor­do di opporsi con ogni mezzo a qualsiasi ulteriore disconosci­mento unilaterale degli obblighi previsti nei Trattati e si impegna­rono per una continuazione dei negoziati per il loro riesame. Rin­novarono anche il loro impegno per la sicurezza e l'indipendenza dell'Austria. Signor Mieli, perché  decaddero quegli accordi?
    I detentori della maggior parte delle ricchezze della terra, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, perché pretesero e ottennero le sanzioni contro l’Italia nel 1935? Per difendere l’Etiopia? Ma non ci faccia ridere; l’Etiopia, forse sobillata proprio da questi Paesi fu responsabile dell’attacco al consolato italiano di Gondar, l’11 novembre 1934 (dove rimase ucciso un militare di colore fedele all’Italia) e, come ricorda il giornalista e storico svizzero, Paul Gentizon (Difesa dell’Italia): <Ancora nel 1924 l’Italia che ha appoggiato lealmente l’accoglimento dell’Etiopia nella Società delle Nazioni riceve festosamente a Roma Ras Tafari, firma con lui un Patto di amicizia accompagnato dalla offerta di un aiuto finanziario. Tutto ciò non disarma la boria e la malvagità del governo abissino che respinge sistematicamente le domande di concessioni e turba il libero commercio tra Eritrea e Etiopia con una tacitamente organizzata guerriglia di rapina. Gli incidenti scoppiano a catena e non si sa più come giustificarli o come accettarne le giustificazioni. Dal maggio ’28 all’agosto ’35 si allineano 26 offese a rappresentanti diplomatici, 15 aggressioni a cittadini italiani, 51 razzie: tutto ciò avviene in territorio italiano e i morti italiani non mancano>.
   La tensione nei rapporti italo-etiopici si aggravarono alla fine del 1934, quando un contingente abissino si accampò davanti al fortino di Ual-Ual difeso dai Dubat, soldati somali fedeli all'Ita­lia, al comando del capitano Roberto Cimmaruta. Lo storico Rutilio Sermonti (L’Italia nel XX Secolo, Edizioni All’Insegna del Veltro, 2001) attesta che le truppe assalitrici erano al comando del colonnello inglese Clifford.
Ual-Ual era una località posta al confine, sin da allora incerto, fra Somalia ed Etiopia, ma mai rivendicato dal Governo Abissino.
II 5 dicembre di quell'anno, dopo che i Dubat rifiutarono la richiesta abissina di sgombero, questi scatenarono l'assalto e lo scontro si concluse all'alba del giorno seguente con la vittoria ita­liana, ma le nostre truppe coloniali lasciarono sul terreno 120 morti. Si è scritto che dietro questo grave incidente ci fosse la mano di Londra e Parigi; ma questo non è provato.

Bruno Barrella su Il Giornale d'Italia del 18 luglio 1993, rammentando i fatti di Ual-Ual, scrive: <È l'ultimo di una catena di episodi di sangue che avvenivano lungo uno dei confini più la­bili dell'epoca>.
    Per risolvere pacificamente il dissidio creatosi a seguito degli incidenti di Ual-Ual, venne istituita una commissione arbitrale italo-etiopica, presieduta dallo specialista greco di diritto interna­zionale, Nicolaos Politis. La commissione, il 3 settembre 1935, emetteva la sentenza attribuendo le cause degli scontri agli atteg­giamenti ostili di alcune autorità locali abissine, escludendo, di conseguenza, ogni responsabilità italiana.
   L’alleanza con il nazionalsocialismo? «Ades­so che la politica inglese aveva forzato Mussolini a schierarsi nell'altro campo, la Germania non era più sola» (La Seconda Guerra Mondiale, di Winston Churchill, 1° volume, pag. 209). Quasi con le stesse parole George Trevelyan nella sua “Storia d’Inghilterra”, a pag. 834, ha scritto: <E l’Italia che per la sua posizione geografica poteva impedire i nostri contatto con l’Austria e i Paesi balcanici, fu gettata in braccio alla Germania>. E vogliamo dimenticare il più noto studioso del fascismo?  Renzo De Felice (Storia degli Ebrei sotto il Fascismo, pag. 137): <Sulla ineluttabilità dell’alleanza con Hitler e quindi della necessità di eliminare tutti i motivi non solo di frizione, ma anche solo di disparità con la Germania>. Mussolini era conscio che l’antisemitismo occupava uno spazio preminente nell’ideologia nazionalsocialista, di conseguenza se voleva eliminare le ultime diffidenze tedesche, anche nel ricordo del “tradimento italiano del 1915” e giungere ad una reale alleanza militare, doveva adeguarsi alle circostanze. Riteniamo che fosse questa e non altre la ragione della scelta del Duce.
   Tanto, ma tanto ancora avrei da scrivere e condannare i veri criminali dello scorso secolo, e mi riferisco a Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill, personaggi abominevoli che galleggiano su un mare di sangue.
   Passo ora a trattare l’argomento più infame: l’accusa di essere Mussolini la concausa della reale, o bugiarda accusa del massacro degli ebrei.
   Signor Mieli, mi sa spiegare - e spiegarlo agli italiani - come mai negli anni 1938-1942 gli ebrei che fuggivano dai Paesi occupati dai tedeschi anziché rifugiarsi in Russia o in Inghilterra o negli Stati Uniti si rifugiavano in Italia ed erano decine di migliaia? Eppure in Italia vigevano le leggi razziali.
   Proverò a spiegarlo io, ma se sbagliassi, mi corregga. Se può.
   Gli inglesi non usarono solo le parole, ma la violenza contro gli israeliti. Rosa Paini (storica ebrea, Il cammino della speranza) riferisce che nel ’41 un folto nucleo di famiglie fuggito da Bratislava, imbarcato sul piroscafo “Pendeho”, composto da 510 profughi cechi e slovacchi, dopo aver navigato sul Danubio giunse nel Mar Nero. Qui, e precisamente a Sulina, salì a bordo il console britannico e informò i malcapitati che il suo governo li considerava immigranti illegali: di conseguenza, se si fossero avvicinati alle coste della Palestina, sarebbero stati silurati. Dovettero quindi ripartire e, superati diversi incidenti, giunsero all’isola disabitata di Camillanissi dove non c’era nemmeno acqua. Sbarcati, assistettero impotenti all’affondamento del battello. Dopo cinque giorni di sofferenze sopraggiunse una nave della Croce Rossa Italiana che imbarcò i profughi per trasferirli a Rodi, dove rimasero alcuni mesi e quindi imbarcati e trasferiti in Italia. Fra i tanti vale la pena di ricordare un altro dramma: nel febbraio del 1942 lo “Struma”, una nave di profughi proveniente dalla Romania, si vide rifiutare dagli inglesi il permesso di sbarcare, e, respinta anche dai turchi, affondò nel Mar Nero: settecentosettanta persone annegarono (Paul Johnson, Storia degli ebrei, pag. 582).
   Lo storico israelita Léon Poliakov (“Il nazismo e lo sterminio degli ebrei”, pag. 63) accusa apertamente il governo britannico ricordando che qualche convoglio clandestino, formato con l’aiuto di Eichmann, tentò di discendere il Danubio su barche, mirando alla Palestina, ma le autorità inglesi rifiutarono il passaggio di questi viaggiatori perchè sprovvisti di visto. <Così si assiste al paradosso che la “Gestapo” spinge gli ebrei verso il luogo della salvezza, mentre il governo democratico di Sua Maestà britannica ne preclude l’accesso alle future vittime dei forni crematori>.
   Oppure:   L’esperto di sondaggi Elmo Roper osservò: <Gli Stati Uniti avrebbero certamente potuto accogliere un gran numero di profughi ebrei. Invece, durante il periodo bellico, ne furono ammessi soltanto 21 mila, il 10% del numero concesso secondo la legge delle quote. La ragione di questo fatto era l’ostilità dell’opinione pubblica. Tutti i gruppi patriottici, dall’American Legion ai Veterans of Foreign Wars, invocavano un divieto totale all’immigrazione. Ci fu più antisemitismo durante il periodo della guerra che in qualsiasi altro della storia americana (…). Negli anni 1942-44, ad esempio, tutte le sinagoghe di Washington Heights, New York, furono profanate>.
   Un’altra testimonianza ci viene offerta dal “Neue Zürcher Zeitung”, il quale il 18 gennaio 2000 ha pubblicato una lettera a firma di Susi Weill che, fra l’altro, ha scritto: <I miei genitori avevano tentato invano di emigrare in America, ed oggi è un fatto stabilito che le rappresentanze diplomatiche americane in Europa avevano ricevuto l’ordine di respingere tali domande>.
   Quando fu necessario, il governo americano usò la forza, come ricorda Franco Monaco (op. cit., pag.175): <Allorchè a un piroscafo carico di ebrei, partito da Amburgo, fu vietato l’attracco a New York, quei fuggiaschi vennero accolti in Italia e poi dislocati in varie zone della Francia, della Dalmazia e della Grecia>.
   Non è sufficiente? E allora andiamo avanti
   Ha scritto Daniele Vicini su “L’Indipendente” del 20 luglio 1993: <Ebrei e comunisti sciamano verso il Brennero, frontiera che possono varcare senza visto a differenza di altre (americana, sovietica, ecc.) apparentemente più congeniali alle loro esigenze>. Dello stesso parere è Klaus Voigt che in “Rifugio precario” osserva quanto fosse strana la dittatura fascista. Infatti scrisse: <Fino all’entrata in guerra dell’Italia non risulta neppure un caso di condanna o allontanamento di un emigrante per attività politica (…). Eppure dal 1936, la Germania è il principale alleato e quegli “emigranti” sono suoi nemici. Polizia e carabinieri ricevevano disposizioni dal Duce, chiare ed essenziali, anzi ridotte ad una sola parola: “Sorvegliare”. Non arrestare>. Allora, Signor Mieli, come ripeto: in Italia vigevano le leggi razziali. Tutti pazzi?
   Andiamo avanti, Signor Mieli? Volentieri, fino a che lo spazio me lo concede.
   <Mentre, in generale,  i governi filofascisti dell’Europa asservita non opponevano che fiacca resistenza all’attuazione di una rete sistematica di deportazioni capi del fascismo italiani manifestarono in questo campo un atteggiamento ben diverso. Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico (…). È significativo il fatto che i tedeschi non sollevarono mai il problema degli ebrei in Italia. Certamente temevano di urtare la suscettibilità italiana (…). Appena giunte sui luoghi di loro giurisdizione, le autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei (…)> (Léon Poliakov, “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei”, pagg. 219-220).
   Andiamo avanti
   Poliakov scrive: <Mentre i Prefetti (francesi) ordinavano arresti e internamenti, allestivano convogli per la Gestapo, le autorità militari italiane, a dispetto delle minacce, ordinavano l’annullamento di tali ordini. Tra le autorità d’occupazione tedesche e il Governo di Berlino, tra il governo di Berlino e il Governo di Roma, tra le autorità di Vichy e i generali italiani vi era un continuo scambio di note nervose e impazienti. La Germania chiedeva all’Italia di agire nello spirito delle disposizioni tedesche. L’Italia rifiutava e resisteva>. Non solo, ma il Governo italiano ottenne che gli ebrei italiani residenti nelle zone occupate dall’esercito tedesco fossero esentati dall’obbligo di mostrare la stella gialla.  Lo stesso accadeva nella Legazione di Bruxelles. Addirittura, secondo quanto scrive Martelli, che include un documento nel quale descrive come il Consolato Italiano di Bruxelles esigeva che venissero esentati dall’imporre la stella gialla e dai lavori forzati, anche gli ebrei greci perchè le truppe italiane occupavano parte del territorio greco. Questo, evidentemente era troppo, infatti un ordine del Conte Blanco Lanza d’Ajeta, del Ministero degli Esteri di Roma, con un telegramma datato agosto 1942, imponeva di <sospendere tutte le iniziative prese in merito ai cittadini ebrei greci>. http://motlc.wiesenthal.com
   Lo stesso docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, George L. Mosse, nel suo libro “Il razzismo in Europa”, a pag. 245 ha scritto: <Il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo. Le leggi razziali introdotte da Mussolini nel 1938 impedivano agli ebrei di svolgere molte attività e si tentò anche di raccogliere gli ebrei in squadre di lavoro forzato; ma mentre in Germania Hitler restringeva sempre più il numero di coloro che potevano sottrarsi alla legge, in Italia avveniva il contrario: le eccezioni furono legioni. Come abbiamo già detto, era stato Mussolini stesso a enunciare il principio “discriminare non perseguire”. Tuttavia l’esercito italiano si spinse anche più in là, indubbiamente con il tacito consenso di Mussolini (…). Ovunque, nell’Europa occupata dai nazisti, le ambasciate italiane protessero gli ebrei in grado di chiedere e ottenere la nazionalità italiana. Le deportazioni degli ebrei cominciarono solo dopo la caduta di Mussolini, quando i tedeschi occuparono l’Italia>.
   Vedo che lo spazio a mia disposizione si esaurisce, allora oso chiedere al signor Mieli: se quanto ho scritto risultasse vero, perché tanta vigliaccheria verso l’unico statista onesto e capace che l’Italia abbia avuto da secoli? Mi permetto di esporre la mia idea riferendomi a quanto ha scritto Rutilio Sermonti, e riportato all’inizio di queste pagine: <La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia>. E la risposta viene per bocca dello stesso Benito Mussolini; nel corso di una intervista che il Duce concesse nel suo studio presso la Prefettura di Milano a Gian Gaetano Cabella, direttore del Popolo di Alessandria, nel pomeriggio del 20 aprile 1945, cioè sei giorni prima del suo assassinio: <RICORDATEVI BENE: ABBIAMO SPAVENTATO IL MONDO DEI GRANDI AFFARISTI E DEI GRANDI SPECULATORI (…)>.
   E quel mondo dei grandi affaristi e dei grandi speculatori, oggi sono i padroni e il mondo è una loro colonia.
   E l’abbiamo voluto noi, salvo pochi…e fra questi pochi, non ci sono i vari Mieli, Augias, Minoli ecc.

mercoledì 24 aprile 2013

USURA E DINTORNI


L'uomo e la sua l'evoluzione democratica


«A mali estremi, estremi rimedi,
o diversamente nulla».
WILLIAM SHAKESPEARE
Amleto, Atto IV, scena III

Piero Sella

Che il proliferare senza confini e senza regole della grande finanza sia alla radice dell’attuale marasma economico è ormai evidente.

È altrettanto fuori discussione che i danni più pesanti stanno toccando all’Europa.
Le nazioni del Vecchio Continente, che cinquant’anni fa si erano mosse per realizzare uno Stato federale, hanno visto questo ambizioso progetto politico impantanarsi e poi evaporare. Di esso non sono rimasti altro che l’euro – una moneta che non ha alle spalle uno Stato da cui essere difesa – e una Banca Centrale che ne cura l’emissione e la circolazione su un territorio privo di leggi comuni.
A questa banca i singoli Stati hanno riconosciuto un’autonomia assoluta.
La gestione dell’economia è così passata dagli Stati, non a un’autorità politica sovrannazionale da essi nominata, ma a un ente finanziario che non risponde ad alcuna autorità. Sciocco errore o colpevole tradimento degli interessi europei? Il risultato è comunque disastroso: gli Stati non hanno oggi voce in capitolo, né sul merito delle decisioni della banca, né sulla scelta dei suoi dirigenti. 

Ma allora a chi fa capo questa Banca Centrale Europea? E chi nomina i suoi vertici? Essa si inserisce perfettamente nell’organigramma di quella burocrazia bancaria atlantica che è riconducibile alla strategia dei centri economici e finanziari del capitale ebraico. Come le altre sigle collegate – Banca dei Regolamenti Internazionali, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Federal Reserve – che svolgono funzioni pubbliche e che perciò sono ritenute dai più istituzioni statali, pur essendo in realtà società private, anche la BCE vede il suo nucleo dirigente formarsi attraverso una cooptazione che, senza vincoli di nazionalità, porta in alto i più affidabili tra gli addetti ai lavori.
Fatto sta che i governi europei, impigliati nella ragnatela tessuta dalla plutocrazia mondialista, sono rimasti fuori dalla stanza dei bottoni.Interdette loro le decisioni di maggior rilievo, ai politici degli ex Stati sovrani risulta oggi delegata unicamente l’amministrazione corrente, gravata anch’essa dalle direttive che, minacciose e ineludibili, piovono di continuo dall’alto.
Questa avvilente minorazione dei popoli d’Europa, commissariati dalla grande finanza, è stata ben fotografata – purtroppo solo in privato – da Berlusconi quando intercettato sbotta: «la gente non conta un c..., i parlamenti non contano un c...». 

Accertato che le cose non stanno per nulla come democrazia vorrebbe, ci pare necessario capire chi sono quelli che contano, chi, alla fin fine, ha in mano il potere. Nella società attuale, dove metro di ogni cosa, unico valore condiviso è la ricchezza, il potere non può che appartenere a quell’oligarchia che si è assicurata il «signoraggio» e cioè l’esclusiva a stampare e a cedere alla collettività il denaro, nella quantità, al costo e a condizioni non pattuite con gli utenti del servizio, ma variabili unicamente a suo arbitrio.
È questo il punto di partenza per la nascita e il prosperare di una finanza internazionale parassitaria, oggi tanto solida da non aver difficoltà a imporre, con un guinzaglio assai corto, la propria legge ai Paesi e alle economie assoggettate. A ricattare e strangolare al minimo segnale di ammutinamento.
Quando, dopo la designazione di Monti, Berlusconi, ancora forte di una maggioranza parlamentare, ha tentato di rassicurare i suoi dicendo «possiamo staccargli la spina quando vogliamo», Tremonti lo ha gelato: «appena qualcuno si azzarderà a chiedere le elezioni, lo spread schizzerà in alto».
Lo scontro tra economia e politica è impari: i sovietici mandavano i carri armati, oggi le armi per i colpi di Stato sono altre e più decisive. Quella dei signori dell’usura è il prestito. Il debito, in quanto fonte di guadagno, ma soprattutto di controllo politico, una volta creato, va mantenuto ad ogni costo.

Il cliente, il debitore, non deve essere messo nelle condizioni di poterlo estinguere. Le nazioni e i privati indebitati sono un capitale da tenere in vita e accudire con la stessa cura che ha il pastore per il suo gregge. Per lasciarli indefinitamente sulla graticola, non c’è di meglio che impedire alla politica quelle riforme che possano turbare lo status quo debitorio. Sono invece incoraggiate manovre di corto respiro tese a produrre deflazione, disoccupazione e, più in generale, effetti recessivi. Col ristagno produttivo, il cerchio si chiude. I debitori boccheggiano e hanno bisogno di nuovi prestiti.
Il plutocrate però non si accontenta di vivere aspettando passivamente il frutto dell’usura. Poiché capitale e interesse, per la natura stessa del prestito, non sono immediatamente esigibili, e l’esperienza insegna che può esserci addirittura il rischio di vederli sfumare, i crediti vengono velocemente cartolarizzati e commercializzati, cioè frazionati e venduti al minuto. Le banche, alle quali i politici europei permettono di muoversi con scioltezza, in regime di pressocché totale deregulation, riescono ad accollare ai propri clienti qualsiasi titolo cartolarizzato predisposto dai gestori dell’azzardo finanziario. Clienti già spennati in varie occasioni, e predestinati, nella visione della plurisecolare creatività finanziaria giudaica, al ruolo di fruitori finali del cerino acceso. Entrano così in cassa sempre più soldi, che la speculazione impiega per attaccare sui mercati, sottomettere e schiavizzare prede sempre più grosse. 

Ma quando, per l’ingordigia degli usurai – le banche d’affari USA, ricche dei miliardi di dollari stampati per esse dalla FED – la bolla debitoria si gonfia oltre misura, le banche si trovano in affanno a scaricare il rischio. Lo spread (il differenziale di interesse tra le obbligazioni meno solide e quelle più forti, oggi i bund tedeschi) e l’euribor (il tasso che regola i prestiti interbancari) si impennano.
Il debitore, pubblico o privato, che all’inizio era stato invogliato con interessi minimi, per ottenere il rinnovo o altri finanziamenti, deve pagare un tasso sempre più alto. Ma spendere di più per finanziarsi non lo mette al riparo da ulteriori guai. È ormai finito, sebbene stia onorando i propri impegni, nel mirino della speculazione, la quale è libera di giocare nelle borse persino sul timore, da essa stessa dosato, che possa subentrare il default. Ne nascono sbalzi nella quotazione dei titoli, verso il basso quando sono diffuse voci preoccupate, verso l’alto quando vengono rilasciate dichiarazioni rassicuranti, ottimistiche.

L’utile, in entrambi i casi, finisce nelle tasche di chi ha avuto la licenza di mettere a punto il marchingegno ed è quindi in grado di sfruttarne gli effetti.
Quando il virus del default infetta il mercato, i titoli dei Paesi aggrediti dalla speculazione valgono sempre meno. Se le banche ne hanno troppi, il loro bilancio non quadra più e, poiché la loro capacità di prestare è legata, sia pure in piccola parte, al capitale posseduto, diventa per loro difficile continuare a finanziare le imprese. Quando queste entrano in sofferenza, per gli istituti di credito si fa reale il rischio di non vedersi restituiti quei soldi che avevano prestato senza averli.
Le acrobazie speculative della finanza virtuale sono ricadute a questo punto sulla economia reale.
È possibile porre rimedio a questa situazione? Intervenire dettando regole a difesa dell’economia nazionale ed europea e contro la speculazione? È possibile prendere decisioni che interrompano la crescita del debito e dei relativi interessi?
È possibile, ma il cambiamento non può certo avvenire nel quadro attuale.
L’Europa e i suoi Stati non hanno infatti nelle loro mani le leve dell’economia, né quelle degli istituti finanziari, i quali, come già detto, agiscono in assoluta autonomia.
Per cambiare le cose, la premessa ineludibile è quella che le Banche di emissione e con esse l’intera struttura del credito e delle assicurazioni siano nazionalizzate. La BCE apparterrà allora al popolo europeo, Bankitalia a quello italiano. Il denaro stampato e messo in circolazione non sarà gravato in partenza da nessun balzello, da nessun signoraggio privato. L’indirizzo operativo della BCE sarà stabilito non dalla finanza atlantica, ma del governo federale europeo eletto dal popolo.
Con la nazionalizzazione del credito dovrà anche essere vietata – in tutto o in parte – la cessione agli investitori stranieri dei titoli del debito pubblico.

Questo resterà così un problema contabile interno, precluso alla speculazione di chicchessia.
In Italia il Presidente del Consiglio potrà davvero nominare il governatore della nostra Banca Centrale, che oggi può semplicemente indicare. Cesserà anche la scandalosa e illegittima situazione odierna che vede le banche private, soggetti che dovrebbero essere controllati da Bankitalia, esserne invece azionisti e quindi proprietari.
È chiaro che la politica, così com’è oggi, non ha né la volontà né la forza per imporre riforme del genere. È del pari illusorio che il mondo bancario accetti di autoriformarsi. Esso ama lo status quo perché ha preso atto che l’economia reale è diventata poca cosa rispetto agli affari virtuali. Non soffre nel vedere che, all’impazzare della pirateria finanziaria, la produzione e il lavoro passano in subordine. Le banche sono più interessate a sfruttare la redditività derivante dalla enorme massa di denaro che ogni giorno si muove esentasse alla velocità della luce.
Anche intervenire sul debito sarebbe possibile, e farlo non costerebbe neppure nuove tasse, ma ci metterebbe sicuramente in urto con le strutture politicomilitari e coi tabù culturali imposti all’Europa dalla plutocrazia atlantica.
I governi – di sinistra, di destra o tecnici che siano – invece di richiamare in Patria le migliaia di militari oggi all’estero, dove, al servizio della NATO, recano gravi danni all’Europa, devono rassegnarsi a far cassa con le pensioni e la proprietà immobiliare. Invece di spingere al lavoro i nostri disoccupati, ponendo così fine a un’enorme evasione fiscale, devono favorire l’immigrazione e sprecare miliardi per mantenere clandestini, rifugiati e rom. Per non parlare delle decine di migliaia di extracomunitari che intasano i tribunali e affollano le carceri.
La cupola plutocratica, in conclusione, ci danneggia e ci impedisce di reagire. E l’unico segno di vita che essa dà nella crisi è il mostrarsi preoccupata per la sorte dei suoi compagni di merende, le banche, che decide pertanto di rifinanziare.

Come avviene quest’operazione? Stampando, con poca spesa e nessun controllo esterno, il quantitativo di banconote ritenuto opportuno. Questa produzione di denaro dal nulla, cripticamente indicata agli ignari sudditi come «immissione illimitata di liquidità», viene considerata dagli economisti, dai «bocconiani» e dalla stampa specializzata come un taumaturgico rimedio. A trarne vantaggio, in realtà, sono solo la Banca Centrale che con le nuove banconote si è procurata nuovo lavoro e nuovi utili, e le banche oggetto del soccorso.
È un affare tra banche. I privati, ma anche gli Stati che, incredibilmente, non hanno più una loro banca, sono costretti ad approvvigionarsi sul mercato.
Le banche inguaiate possono anche fruire, per rifinanziarsi, della riduzione del tasso BCE decisa dal Governatore appena nominato. E lo sconto dello 0,25% non è poca cosa se riferito al precedente tasso BCE dell’1,5%. Lo sconto non è invece significativo per gli Stati gravati dallo spread e per i privati ai quali, al tasso BCE, vengono aggiunti spread ed euribor. È così che, da un tasso di partenza BCE dell’1,25% le banche possono applicare ai clienti interessi intorno al 13%. Per legittimare questo esproprio, i politici hanno di recente ritoccato verso l’alto il limite oltre il quale il tasso veniva giudicato usurario.
C’è da rilevare infine quanto l’incontrollato aumento della massa monetaria operato dalla BCE contrasti con le linee guida dettate dalla stessa: nessun aiuto alle imprese nazionali, condanna assoluta – quando ciò nel passato era possibile – di qualsiasi politica tale da produrre inflazione.
Il perché della differenza tra questi due opposti indirizzi è evidente.
Obiettivo dello Stato è quello di garantire difesa, sicurezza, servizi, lavori pubblici, assistenza sanitaria e giustizia sociale. Deve quindi investire il necessario e, nel farlo, non deve curarsi più di tanto di creare debito. È vero che aumentare il circolante conduce a una proporzionale riduzione del valore della moneta, ma è anche vero che, al crescere dell’inflazione è automatica la riduzione del debito. Se l’operazione è accortamente pilotata, può condurre al tempo stesso all’espansione dell’economia e all’azzeramento del debito. 

La Banca Centrale Europea ha scopi istituzionali assai diversi da quelli dello Stato. L’emissione e il controllo della circolazione monetaria, quand’è in mano a privati che si muovono a fini di lucro, non punta al benessere della popolazione, alla tutela dell’economia, dei produttori, dei consumatori. L’immissione di moneta non è fatta per fornire servizi e non avviene a pioggia, ma è riservata ai soli istituti di credito. E l’obiettivo è unicamente quello di far loro superare un momento critico, in modo che possano continuare ad esercitare con tranquillità le consuete attività parausurarie, e non venga a mancare la loro collaborazione al grande gioco virtuale allestito dalle centrali plutocratiche d’oltreoceano.
I soldi creati e passati alle banche non provocano dunque inflazione e non vanno a intaccare la sostanza dei debiti. Si tratta di un meccanismo ben registrato in cui il denaro in uscita ritorna moltiplicato nelle mani di chi l’ha stampato. Sarebbe del resto fuorviante che l’industria del credito, col suo «fuoco amico», provocasse con l’inflazione una riduzione dei debiti. Non si è mai visto un macellaio chiedere l’eliminazione dal mercato del bancone delle carni.
C’è da aggiungere che, per il mantenimento del debito, la BCE ha altre  frecce nel suo arco. Poiché gli Stati potrebbero renderlo meno pesante anche attraverso lo sviluppo, la Banca Centrale si muove per impedire la crescita del PIL: eccola bloccare la spesa, frenare gli investimenti, tenere bassi gli stipendi, ridurre il welfare.
È quello che i cittadini europei, senza averne alcuna colpa, sono oggi condannati a subire.
La grande finanza sembrerebbe dunque, al momento, avere in mano tutti gli strumenti per continuare a giocare, di bolla in bolla e senza limiti di tempo, sulla pelle delle nazioni.


* * *
L’assurda rinuncia degli Stati europei alla sovranità economica e monetaria non può essere considerata come fenomeno circoscritto, privo di ripercussioni.
Essa costituisce anzi la base di partenza dalla quale i poteri forti hanno potuto estendere il loro dominio sull’intera categoria politica e, di riflesso, su ogni aspetto della convivenza sociale.
In tale quadro la democrazia è solo un lugubre lenzuolo calato dalla plutocrazia per soffocare in tutto l’Occidente la libertà dei popoli e per insidiarla con spocchiosa protervia in ogni angolo della Terra.
Il debordare della grande finanza e del suo braccio secolare, l’apparato militare della NATO, è infatti sfacciato e senza limiti. Il pretesto per l’intervento è sempre disponibile: contro la vittima il lupo può invocare, di volta in volta, il terrorismo, il pericolo delle armi di distruzione di massa, l’imperativo di portare la democrazia anche ai meno fortunati, l’obbligo morale della protezione dei civili.

L’uso della menzogna è sistematico. Alle masse sono imposti, con larghezza di mezzi e raffinata tecnica pubblicitaria, giudizi storici, indirizzi politici, orientamenti culturali e artistici. Ecco perché – sessant’anni dopo – sono ancora in circolazione, e spacciate per verità, le tesi propagandistiche della coalizione demo-comunista vittoriosa sull’Europa nella guerra ’39-’45. Ecco il telone dell’olocausto agevolare, da un lato l’invadenza intellettuale giudaica, dall’altro nascondere il razzismo teocratico che, da un secolo, opprime la Palestina. Ecco ad annacquare l’identità dei popoli, a criminalizzare l’idea nazionalista, la martellante campagna a favore della globalizzazione, dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’accoglienza, dell’imbastardimento razziale. Napolitano, il presidente guerrafondaio e golpista, ha definito recentemente «folle» una legge dello Stato, quella sulla cittadinanza. Il «ministro per l’integrazione» del nuovo governo Monti è già al lavoro per modificarla. È la totale, programmata devastazione di ogni cemento etnico e sociale.
Le aggressioni della NATO sono puntualmente supportate dalle agenzie di stampa e dai media, i quali però non si occupano mai dei massacri di civili perpetrati dagli invasori atlantici e minimizzano le torture, i sequestri di persona e le detenzioni illegali che si consumano ogni giorno negli USA, nelle loro colonie, nei paesi occupati o in quelli dove hanno basi militari.

In questo panorama di disinformazione, è degno di specifica attenzione il fatto che siano stati presentati come legati alla cosiddetta «primavera araba» gli eventi di Libia. Il Paese, che nulla aveva in comune con quelli vicini, è stato in realtà prima corrotto e destabilizzato dai servizi franco-britannici, poi piegato attraverso bombardamenti terroristici che hanno distrutto ogni infrastruttura militare e civile. A riprova di quanto l’aggressione sia stata improvvisa e proditoria, la Libia, in tutta la guerra che l’ha vista martirizzata, non è mai stata in grado di sparare, contro chi violava il suo territorio, neppure un missile. 

Quanto ai corrispondenti di guerra europei, si sono guadagnati il loro stipendio propinando alla pubblica opinione tutta la spazzatura mediatica ammucchiata dalla cupola atlantico-sionista. Uno sforzo professionale che, per quel che riguarda la TV, non ha mai raccordato in modo coerente il testo con le immagini dello schermo e che, neppure sulla carta stampata, è riuscito a coprire coi racconti di atrocità mai avvenute, di fosse comuni, di stupri di massa, il vergognoso intervento dei crociati occidentali. Chi, stando dalla parte dei libici prezzolati dagli occidentali, si era lanciato nella descrizione di un Gheddafi in fuga, con camion stipati di lingotti d’oro e casse di gioielli, è stato sbugiardato dalla morte del Rais, armi in pugno, sulla sabbia del suo Paese.
La guerra mossa dalla NATO contro la Libia voleva colpire in realtà il governo e gli interessi italiani. Da tempo il Presidente del Consiglio Berlusconi era finito sulla lista nera dei suoi «alleati» anglo-franco-americani. Il suo attivismo internazionale, in particolare gli stretti contatti personali con Putin e Gheddafi, erano giudicati pericolosi; potevano condurre l’Italia verso nuovi equilibri energetici e politici. Un’evasione che poteva contagiare l’Europa. Questo è il motivo – e non le sue performance sessuali – per cui Berlusconi «non godeva della fiducia dei mercati».
Per liberarsi di questa anomalia sono stati mobilitati gli uomini legati in Italia ai poteri forti: opposizione, magistratura, giornali delle banche. Tutti, va da sé, sotto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica.
Col fallimento della congiura di Fini e il contenimento dell’attacco giudiziario, per mettere in riga Berlusconi e l’Eni non restava che colpire Gheddafi.
Le intercettazioni di WikiLeaks confermano la solidità di questa nostra interpretazione. «Il presidente – scrive da Roma a Washington l’ambasciatore USA Spogli – è colpevole di assecondare i peggiori istinti di Putin e di minare i tentativi dell’Unione europea e degli USA di creare una politica energetica comune».

«La continua presenza di Eni – dice sempre Spogli, riferendosi alle trivellazioni iraniane e africane della nostra azienda petrolifera – è un fattore d’attrito nelle relazioni Italia-USA».
Contro gli interessi italiani e a fianco delle centrali di potere mondialiste si è schierato persino il Vaticano, costretto, ancora una volta, a pagare pegno per il suo peccato originale, la sudditanza teologica al giudaismo, il «fratello maggiore». Il vescovo di Tripoli, monsignor Martinelli, che aveva smentito le allarmistiche notizie diffuse dal comando NATO e chiesto la fine dei bombardamenti sulla città, è stato rimosso e richiamato in patria.
L’Europa è dunque immobilizzata dalla costruzione finanziaria mondialista di cui essa rappresenta solo un’appendice coloniale. La sua politica estera è nelle mani della NATO che, dopo la caduta del comunismo, è passata – senza che le nazioni dell’Alleanza venissero interpellate – a fronteggiare i nemici di Israele. Le sue istituzioni politiche e le strutture economiche e produttive devono conformarsi alla pressione di potenze e lobby straniere.
È per questa ragione che, nella crisi attuale, nulla potrà essere riassestato con quegli interventi marginali che, di volta in volta, vengono messi sotto i riflettori e presentati da maggioranza, opposizione e governi tecnici, come determinanti. Per essere più chiari, cambiare i ministri, modificare il sistema elettorale, cancellare o meno le provincie, dare scadenze diverse all’età pensionabile, intervenire sulle intercettazioni, privatizzare, non può risolvere alcunché.
Il pessimismo non può certo essere mitigato quando vediamo i Paesi in crisi passare direttamente e senza scosse nelle mani dei proconsoli del grande capitale. Uomini questi tutti allevati nelle strutture finanziarie internazionali e già collaudati nelle Banche d’affari mondiali e in quella Centrale Europea.

Questa resa della politica, che avviene alle spalle di una popolazione spaventata e che non è in grado di capire, ha il sapore della beffa perché è proprio dal mondo della finanza, dai suoi uomini, dai suoi titoli tossici, che la crisi ha avuto origine.
L’aver affidato in Grecia ed in Italia ai banchieri le redini della cosa pubblica dimostra l’incapacità dell’Europa democratica a reagire. Invece di essere obbligati a mettere ordine a casa loro, nelle loro banche, gli uomini della catastrofe sono stati chiamati a mettere le mani nelle nostre tasche. Dietro una democrazia disposta a sacrificare il suo popolo è ormai evidente il potere dell’usura internazionale, un potere finalizzato alla predazione e nel quale il rigetto di ogni socialità non è casuale e momentaneo, ma fisiologico e irreversibile.
Ha dunque ragione il grande Shakespeare. Per ribaltare una prognosi infausta, i rimedi devono essere estremi, devono cioè condurre a esiti che non abbiamo il timore di definire rivoluzionari.

martedì 23 aprile 2013

Due parole sul 25 aprile


Maurizio Barozzi

“Il 25 Aprile 1945, dopo quasi due anni di guerra civile e di lotta antifascista, all’invito del CLN alla insurrezione, il popolo si sollevò a fianco dei partigiani cacciando via i tedeschi e sbaragliando i fascisti”.
Con questo ritornello, che ha anche l’avallo delle autorità costituite ed è immortalato in festività, ricorrenze e quant’altro, si ha la sintesi di quello che è un mito: la Resistenza del popolo italiano contro i nazi fascisti, una “vulgata” totalmente falsa.
Non che sia falso che ci siano stati degli antifascisti, anche dei partigiani e persone che hanno lottato contro la RSI e i tedeschi, ma il falso è costituito dal fatto che, semmai, la minoranza di italiani che hanno partecipato alla RSI fu più numerosa, ma sopratutto gli episodi di carattere militare di questa “Resistenza” furono talmente scarsi da risultare insignificanti.
Non ci fu affatto una partecipazione di popolo alla lotta antifascista, perché il popolo la gente comune, rimase in massima parte estranea alle diatribe politiche e in attesa di una sperata celere conclusione della guerra. Ed infine, è falso che il 25 aprile ci fu una insurrezione che sbaragliò e cacciò via fascisti e tedeschi, che invece, incalzati dalle truppe Alleate, cercarono di ritirarsi verso l’estremo nord (i fascisti) oppure si arresero e si chiusero nei loro acquartieramenti (i tedeschi).
La “verità” è sempre una sola, anche se spesso nascosta o confusa e per uno storico, qualunque siano le sue convinzioni politiche, sarebbe assurdo cambiarla o edulcorala per sostenere la propria ideologia o visione politica.
Personalmente, essendo il sottoscritto nato nel 1947, sono arrivato a queste conclusioni per ricerche, studi, analisi del periodo in questione, come un qualsiasi storico contemporaneo che analizzi, per esempio, la rivoluzione francese.
Avendo, in ogni caso, ascoltato tantissimi reduci o contemporanei a quegli avvenimenti, ho trovato conferma a quanto vado ad asserire, ma anche la convinzione che molti di costoro, in particolare persone politicizzate, oltre al trascorre del tempo che nel ricordo sfuma o esagera i fatti, spesso sono talmente contraddittori e quindi non in grado di dare un quadro realistico degli avvenimenti.
Alquanto realistica ed esaustiva risulta invece la letteratura di qualche decennio addietro, quella che non affrontava argomenti bellici o politici, ma narrava, indirettamente o di passaggio, semplici vicende quotidiane di vita vissuta tra il 1943 e il 1945. Incrociandoli con i fatti conosciuti ed accertati, sono questi i racconti che ci danno il quadro reale della situazione.

LA RESISTENZA
In tutta obiettività possiamo oggi dire che la cosiddetta “Resistenza” è una invenzione a posteriori ed ogni serio ricercatore storico sa benissimo che, militarmente parlando, la Resistenza fu letteralmente inesistente.
Siamo quindi in presenza di una agiografia dove sono stati ingigantiti o inventati fatti, episodi e altro, per descrivere una inesistente lotta del popolo italiano contro i fascisti e il tedesco invasore. A latere, infine, tutta una editoria e pubblicistica, soprattutto quella orientata a sinistra, ma non solo, sfornò a getto continuo racconti, rievocazioni, memoriali, testimonianze che, da un punto di vista storiografico lasciano molto a desiderare.
Sulla base dell’opera dello storico ed ex partigiano Roberto Battaglia Storia della Resistenza Italiana – Einaudi, 1953, iniziò così poco a poco a crearsi un mito: il “mito della Resistenza” che prese forma e si impose verso la fine degli anni ’60, primi anni ‘70, anche sulla scia delle fiction, ovvero di una certa filmografia che fin dal primo dopoguerra si impegnò in questo campo: tra gli altri, ricordiamo per esempio: Roma città aperta del 1945 di Roberto Rossellini; Achtung! Banditi! del 1951 di Carlo Lizzani; Le quattro giornate di Napoli del 1962 di Nanni Loy; e soprattutto Mussolini ultimo atto, del 1974 di Carlo Lizzani.
Così come nel film di Loy sulla presunta sollevazione di Napoli, anche in quello sulla fine di Mussolini del Lizzani, veniva abbondantemente travisata la realtà dei fatti e inventati episodi mai avvenuti. Il film di Lizzani poi, non era altro che la messa in pellicola della “vulgata”, ovvero della versione falsa e di comodo che elementi del Pci ebbero a fornire sulla morte del Duce addebitandone oneri e onori a tal Walter Audisio. Una “vulgata” che lo stesso regista Lizzani nel 2007, in un suo libro di memorie, ebbe oltretutto a smentire clamorosamente (e con essa il suo stesso film in cui Franco Nero interpretava l’“eroico” colonnello Valerio) laddove, riportando una lettera che gli scrisse nel 1975 Sandro Pertini, questi ebbe ad affermare: “...e poi non fu Audisio a eseguire la ‘sentenza’, ma questo non si deve dire oggi”.
Ma anche le presunte “4 giornate di Napoli”, ci consentono di elevare una osservazione storica: si prenda ad esempio l’episodio di Firenze, dove nutriti gruppi di “franchi tiratori” fascisti, accolsero a fucilate dai tetti gli invasori americani. Di questo avvenimento ne abbiamo innumerevoli prove, testimonianze, anche statunitensi, riscontri e documentazioni. Viceversa della immaginaria sollevazione del popolo napoletano che caccia i nazisti, non c’è nulla, se non racconti distorti di episodi affatto diversi che poi sono stati travisati, ed appunto la fiction filmica.
Ergo i “franchi tiratori” fascisti sono un fatto storico acquisito, le “4 giornate di Napoli”, viceversa, appartengono alla fantasia o alla propaganda.
Ora, storicamente, non possiamo negare che nei due anni che stiamo prendendo in considerazione, 1943 – ’45, ci furono diversi italiani antifascisti, che, come naturale che accada, presero ad aumentare, mano a mano che si andava verso la sconfitta.
Del pari ci furono persone, partiti e gruppi che in qualche modo avversarono il fascismo e i tedeschi e nel corso degli eventi molti furono catturati, imprigionati e passati per le armi. Una seria indagine storica ci dice però che, sostanzialmente, il cosiddetto fenomeno “partigiano”, con tanto di partecipazione popolare, fu talmente esiguo che non se ne ha traccia sensibile negli avvenimenti di quel tempo.
Ma ancor più insignificante è il riscontro militare di una effettiva lotta partigiana, quello che dovrebbe caratterizzare il valore e la portata di una vera e propria Resistenza, e che invece manca assolutamente.
Qualche imboscata, attentati nell’0mbra, occupazioni di località sgombrate dal nemico, ripiegamenti in montagna, ecc., non possono costituire un serio elemento per dare a questi episodi il carattere di una resistenza armata ai “nazifascisti”.
Mancano quindi i due elementi fondamentali: azioni ed eventi bellici significativi e partecipazione di popolo, per poter parlare di Resistenza. Ingigantire qualche episodio e inventarne altri, con la complicità dei partiti e della editoria embedded, può creare un mito, non descrivere la storia.
I cosiddetti partigiani, di cui oggi se ne decantano le gesta, furono poche migliaia in tutto e su tutto il territorio nazionale e i renitenti alla leva che ne costituivano il grosso delle fila, erano andati in montagna, proprio per non combattere.
Gli idealisti antifascisti, comunisti e non, erano una presenza veramente minimale, comunque bisogna riconoscere che c’erano, e spesso furono proprio quei pochi a pagare con la vita.
Ma parlare di “liberazione”, di sollevazioni popolari, ovvero di Resistenza è non solo una esagerazione, ma un falso storico.
In ogni caso, questa minoranza di antifascisti “attivi”, idealisti, renitenti o occasionali, alla macchia o clandestini nelle città, frange dell’Esercito monarchico, ecc., non compirono alcun atto bellico di rilievo, tranne qualche imboscata, traffici d’armi, propaganda sporadica e taglieggiamenti di contadini per auto sostenersi.
Attentati, come quello di via Rasella, a Roma, compiuti da cinque, sei persone, che fanno scoppiare una bomba, nascosta in un carrettino, lo storico non può considerarli vere imprese di guerra. Li considerarono purtroppo come atti di guerra a loro danno, con le conseguenze che sappiamo (rappresaglia delle Ardeatine) i tedeschi.
I dirigenti e i pochi membri del CLNAI, con i loro altisonanti nomi di “battaglia” svolazzavano nei conventi o in sicuri rifugi delle città, riunendosi, parlando e scrivendo di lotta al fascismo e di guerra ai nazifascisti, ma facendo poco o nulla sul piano militare. Anche qui, quindi, abbiamo una Resistenza sulla carta.
A guerra finita si tramutarono in gesta ed imprese, quelli che al massimo erano i loro intenti o quel poco di “trafficare” che ebbero a compiere.
Certo, leggendo i diari, i libri e i memoriali di questi antifascisti, sembra chissà quali gesta stessero compiendo, quali grandi attività antifasciste stessero portando avanti, ma non è così e le cronache storiche smentiscono o non registrano queste imprese.
Non basta un “diario”, un memoriale, un articolo, per scrivere la storia.
Una qualche nefasta presenza la fecero sentire i GAP e le SAP, con le azioni terroristiche in incognito e usi a colpire alle spalle, istigati da Radio Londra. Costoro importarono in Italia metodi terroristici che poco ci avevano appartenuto e vien da ridere che anni dopo, quegli stessi metodi del “mordi e fuggi”, colpisci alle spalle, praticati dalla Brigate Rosse, furono considerati “criminali” da parte del “padre della Resistenza”, quel Sandro Pertini divenuto ossequioso presidente di una Italia liberal capitalista e colonia americana.
Ma tornando ai Gap, anche qui stiamo parlando di poche decine di componenti, nascosti tra la popolazione nelle grandi metropoli.
Ricapitolando: l’esiguo numero di partecipanti attivi alla lotta contro il fascismo e soprattutto le poche e insignificanti loro gesta militari, smentiscono la dimensione di quella che pomposamente si definisce: Resistenza, Insurrezione, Liberazione.
Le stesse fonti partigiane, per esempio, ci dicono che a Como, tra la sera del 25 aprile 1945, quando vi giunse indisturbato Mussolini con i membri del suo governo e la mattina successiva vi arrivarono circa 4 mila fascisti in armi, i membri clandestini del CLN locale ammontavano a circa 50, ovviamente più che altro di nome che non come vera presenza attiva. E pensare che era con questi “fantasmi” che le rinunciatarie autorità della RSI di Como: questore, console della Milizia e prefetto repubblicani, da alcuni giorni stavano trattando in segreto il passaggio dei poteri e il loro defilarsi.
A questo si aggiunse la scempiaggine, l’idiozia, la assoluta mancanza di senso militare e in alcuni casi la voglia di farla finita se non il tradimento, da parte di alcuni comandanti fascisti ivi sopraggiunti, che in poche ore fecero squagliare come neve al sole quei 4 mila uomini armati e a notte alta del 27 aprile firmarono una ignobile “tregua” che in realtà era una vera e propria resa che finì per avere tragiche conseguenze per molti fascisti oramai fatti arrendere, ma non per alcuni loro comandanti che evidentemente avevano concordato il modo per squagliarsi.
La tanto decantata 57esima Brigata Garibaldi che alle 7 di mattina del 27 aprile, ebbe la ventura di incappare in Mussolini e la sua colonna comprensiva dei carri tedeschi in ritirata, mentre cercavano di defluire verso la Valtellina, era composta da poco più di una decina circa di partigiani. Furono le circostanze, la defezione tedesca, la strada impervia e a fettuccia facilmente sbarrabile e controllabile dalla soprastante altura (il “Puncet”) che consentirono a questi partigiani di fermare la colonna motorizzata bloccata appena fuori dell’abitato di Musso.
Questa era la consistenza numerica della Resistenza almeno che non vogliamo prendere in considerazione le adesioni a cose fatte, quelle che videro precipitarsi ad ingrossare le fila dei CLN o delle Brigate partigiane centinaia di “eroi dell’ultim’ora, o le grosse aliquote di popolazione che, spariti i tedeschi e arresisi i fascisti, scesero nelle piazze, spesso più che altro per curiosità, ma ovviamente facendo massa e partecipando emotivamente con i “vincitori”, ecc.
La resistenza quindi fu più che altro un operare politico, un darsi da fare e un attività minimamente militare, per conto degli Alleati e su loro disposizioni, come dimostravano le direttive e le imposizioni di un Promemoria di accordo fra il Comandante Supremo Alleato del teatro di operazioni del Mediterraneo e il C.L.N.A.I del 7 dicembre 1944 firmato dal generale Maitland Wilson, e per il CLNAI da Alfredo Pizzoni, Ferruccio Parri, Giancarlo Paietta ed Edgardo S0gno.
Tra le forze principali che operarono in senso antifascista dobbiamo segnalare l’Alta Finanza, per suoi interessi, attraverso il suo uomo nel CLNAI Alfredo Pizzoni e gli esponenti industriali: i Valletta, i Falk, gli Edison, ecc., ostili al fascismo e preoccupati dalle Leggi sulla Socializzazione varate dal governo di Mussolini.
Nei giorni caldi della “Liberazione” al Nord, partigiani armati furono mandati a difendere le ville dei grandi industriali ai quali poi, a guerra finita, fu fatto il regalo, su ordine Alleato, di cancellare tutte le Leggi da poco varate sulla Socializzazione.
Un discorso a parte andrebbe fatto per il Pci, l’unico che poteva contare su gruppi di militanti sparsi nel territorio, il quale però condusse una guerra civile tutta sua, finalizzata ad assecondare i desiderata di Mosca la quale poi era in accordo con gli Alleati in virtù degli impegni di Jalta.
Togliatti e Longo, quindi, non solo furono fedeli servitori delle direttive di Mosca (che gli imposero la svolta “democratica” di Salerno del 1944, del resto gradita dai dirigenti comunisti), ma anche del SOE, l’Intelligence Britannica, che in varie località organizzò agli uomini del partito comunista i rifugi logistici, le attrezzature e i finanziamenti. Connubi questi che proseguirono anche nel dopoguerra, con la criminale cessione, agli inglesi, di importanti documentazioni di interesse nazionale.
Ma Togliatti fu anche un sodale di monsignor G. B. Montini, il futuro Papa, legato alla massoneria finanziaria statunitense, al tempo organizzatore del servizio segreto Vaticano che per sua natura aveva uomini, o meglio serpi, sia nella Resistenza che nella RSI.
Altro che rivoluzione comunista in Italia! Solo le destre idiote o in malafede hanno potuto descrivere un PCI rivoluzionario dedito alla sovversione in Italia.

LA REPPUBBLICA
SOCIALE ITALIANA
A conti fatti, la RSI ebbe una buona partecipazione di popolo, circa 800 mila aderenti, anche se molti vi aderirono “per ufficio”, ovvero perché trovatisi a proseguire lavori o servizi nell’Italia del Nord.
Considerando però che furono adesioni verso uno Stato che oramai si sapeva andare verso la sconfitta, con tutte le conseguenze per i suoi seguaci, queste adesioni non furono poche.
I fascisti, le Brigate Nere, le formazioni autonome, ecc., che bene o male, a differenza dei partigiani, indossavano una divisa, furono una minoranza, ma comunque costituirono una sensibile presenza di popolo. Ma ovviamente, anche loro, subivano da parte della popolazione un certo isolamento (non avversione) perché considerati una presenza “pericolosa” e “fastidiosa”, che comprometteva e “faceva proseguire la guerra”.
Tutto questo gli occupanti, gli Alleati, lo sapevano benissimo ed ebbero a precisarlo apertamente in varie occasioni, negando anche ai cosiddetti partigiani, privi di divisa e segni distintivi, la qualifica di “combattenti”.
Anche una Sentenza del Tribunale Supremo Militare (n° 747 del 26.4.1954), tribunale di questa Repubblica democratica, tra l’altro affermava:
1) I combattenti della RSI hanno diritto di essere riconosciuti belligeranti;
2) Gli appartenenti alle formazioni partigiane non hanno diritto a tale qualifica, perché non portavano distintivi riconoscibili a distanza, né erano assoggettati alla legge penale militare.

POPOLO ITALIANO
La popolazione italiana, come si può riscontrare da una infinità di memorie non di parte, ma di gente semplice che magari parla di altre cose, di vita quotidiana, ecc., per lo più viveva nella speranza che la guerra finisse al più presto e con essa fame, miseria e disgrazie. Essendo la Nazione impegnata in una lotta mortale per la sua libertà e sopravvivenza, da un punto di vista “morale”, questo agnosticismo non depone certo a favore del nostro popolo, da sempre privo di grandi doti caratteriali, ma del resto quando si parla di civili, di popolazione, le cose sono sempre andate in questa maniera, seguendo le sorti della guerra: folle osannanti agli inizi o se le cose vanno bene, folle avverse che maledicono alla fine se le cose vanno male.
È la natura umana, tanto è vero che, sempre e comunque, i vincitori, hanno poi trovato uomini, civili e militari, pronti a cambiare casacca, a servirli, a interpretare ruoli di governo loro assegnati e anche a fare da spie e da boia.
È ovvio che la popolazione, con la sconfitta che pareva inevitabile (dal 1944 si avvicinava ogni giorno sempre più) e con l’Italia spaccata in due, Nord e Sud, dal tradimento badogliano e l’invasione in Sicilia, aveva perso il senso reale di chi fossero i veri invasori (che erano gli Alleati) e chi fossero i nostri alleati (i tedeschi) e tendeva a ragionare in termini utilitaristici e di pura sopravvivenza.
L’arrivo degli Alleati nelle cosiddette località “liberate”, di conseguenza, era accolto come la fine della guerra, delle privazioni e per questo festeggiato.
I tedeschi erano considerati soldati corretti, ma su di essi pesavano le loro insensate rappresaglie, non considerando ottusamente costoro che, comunque sia, la RSI era uno Stato alleato e quindi non si dovevano applicare con noncuranza le leggi di guerra.
I tedeschi erano temuti e si era lieti quando se ne andavano, ma anche qui, più che altro, perché agli occhi della popolazione rappresentavano la prosecuzione della guerra e delle privazioni. Insomma, per il popolo, non vi era partecipazione politica, tantomeno ideologica e neppure emotiva, né da una parte, né dall’altra.

IL 25 APPRILE
E LA “LIBERAZIONE”
Sostanzialmente, il “25 aprile” è la data della nostra sconfitta militare, della totale occupazione del suolo italiano e la fine, tutt’ora perdurante, di ogni nostra sovranità nazionale. Qualunque sia il pensiero e l’ideologia di ciascuno, non si può che prendere atto di questa realtà indiscutibile. Tutto il resto è retorica. La guerra è la soggiogazione delle nazioni sconfitte, rapina in ogni campo, imposizione di un proprio modello economico, culturale e politico.
E il 25 aprile 1945 l’Italia venne sconfitta e occupata dal nemico e nemico vero, anglo americano. Chi: persona singola, gruppo o partito, da questa occupazione ci ha guadagnato, ne ha tratto benefici in qualsiasi modo, personale, ideale, politico o che altro, può esserne soddisfatto, ma la sostanza dell’avvenimento non cambia: il 25 aprile l’Italia fu definitivamente occupata dallo straniero. Punto.
Ma a proposito di “liberazione”, si sappia che a Milano il 25 aprile - data fatta passare alla storia come giorno dell’insurrezione popolare proclamata dal CLN, ma in realtà non eseguita, tranne uno sciopero dei mezzi in giornata e gli uffici che presero a svuotarsi nel sentore di imminenti avvenimenti decisivi - non accadde proprio nulla e i fascisti restarono padroni della città fino a notte alta, quando intorno alle 5 del mattino lasciarono la città, armati e indisturbati, da Piazza S. Sepolcro, via Dante e Corso Sempione, per incamminarsi verso Como.
Solo dopo quell’ora, nella metropoli, rimasta priva di fascisti, le “nuove” autorità della Resistenza, uscite dai loro sicuri rifugi per ricoprire le cariche che si erano assegnati, ma privi di uomini, dovettero far occupare il palazzo del Governo, ovvero la Prefettura di Corso Monforte lasciata da Mussolini, da uomini della Guardia di Finanza del col. Alfredo Malgeri. Una G.d.F. da sempre con i piedi in due staffe e ora, a vincitori sicuri, passata ufficialmente dalla parte della Resistenza.
Libri di storia (falsa) e riviste di storia (altrettanto falsa), mostrano sovente foto di gruppi di partigiani e di civili, armi alla mano, che sembrano intenti a formare barricate o studiare azioni militari. Trattasi quasi sempre di falsi, di pose realizzate da appositi Studi a guerra finita, oppure messe in scena, ben lontane da teatri bellici, atte a mostrare imminenti azioni.
Ma non è raro neppure il caso di alcuni nominativi di fucilati dai tedeschi, in alcune rappresaglie, che vengono dati come “martiri antifascisti, quando invece, addirittura, trattasi di aderenti alla RSI o suo personale che vennero insensatamente rastrellati dai tedeschi infuriati per qualche attentato e passati per le armi.
Certo, storicamente sono esempi poco importanti, ma sono significativi per dimostrare come, di tante tragedie ed eccidi si sono fatte generalizzazioni e vi sono state poste etichette di una presunta “lotta antifascista”.
Il 27 aprile poi, scesi precedentemente dalle montagne grazie all’arrivo delle truppe Alleate o per il rifluire dei presidi tedeschi e fascisti, arrivarono a Milano le “famose” divisioni partigiane, quelle dell’Oltrepò pavese e più avanti ancora le “famose” divisioni Garibaldi, Matteotti, di Moscatelli della Valsesia, ecc., spesso contrassegnate da cervellotiche e altisonanti numerazioni, ma che in realtà tranne gli “arruolamenti dell’ultim’ora”, erano sempre state costituite da pochissimi elementi. Arrivarono tutti con armi, fazzoletti e belle divise nuove fiammanti fornite dagli americani, a dimostrazione che mai erano state impegnate in veri combattimenti.
A secondo delle varie località del Nord, fu solo nel pomeriggio del 25 aprile, ma più che altro il 26 e 27 aprile, con i tedeschi che oramai avevano smesso di combattere, anzi si erano arresi agli Alleati e si ritiravano nei loro acquartieramenti e i fascisti che lasciavano i presidi e si ritiravano verso Como e la Valtellina, che si ebbero arruolamenti “tranquilli” e festanti nelle Brigate partigiane e nei CLN locali. Allora sì che il numero “dei guerriglieri” ebbe a crescere con adesioni che in futuro fruttarono spesso una pensioncina a questi “eroi” dell’ultim’ora.
Sui pochi fascisti rimasti isolati, su quelli che si arresero e così via, si abbatté la furia omicida e vendicativa di tutti costoro.
Gli Alleati avevano per il fronte italiano la direttiva di procedere con lentezza, altrimenti avrebbero sfondato il “ventre molle” dell’Asse e sarebbero facilmente penetrati alle spalle del Reich mettendo fine alla guerra. Ma questo non era contemplato, in quanto in base agli accordi di Jalta, l’Europa doveva essere divisa in due zone di influenza, Est - Ovest e quindi bisognava attendere che i sovietici superassero il fronte est e invadessero l’Europa prendendo possesso delle zone a loro assegnate. Comunque sia, mano a mano che le truppe Alleate occupavano le località del Nord e imponevano il loro governo AMG, le loro direttive impositive emanate dal PWB, ecc., ebbero un duplice comportamento: in alcuni casi lasciarono consumare le stragi dei fascisti e presunti tali e anzi le aizzarono; in altri casi invece le fermarono specialmente se c’erano ufficiali e sotto ufficiali della oramai ex RSI da salvare con il nascosto fine di utilizzare poi questo personale per i loro interessi di occupanti.
E quei fascisti che ebbero salva la vita, grazie all’intervento Alleato, spesso furono quelli che poi fecero una fine peggiore, quella di diventare, in nome di uno strumentale e specioso anticomunismo, servi sciocchi degli statunitensi.
La storia del neofascismo del dopoguerra, inizia proprio in quei momenti, dove il dirigente in Italia dell’Oss James Jesus Angleton fu abilissimo nel mettersi in tasca questi oramai ex fascisti. Le Stay behind, le Gladio, il filo atlantismo, la strategia della tensione degli anni ’60, ne furono la logica conseguenza.
Un ultima osservazione a proposito di liberazione e liberatori.
Fino a quando, negli ultimi decenni, sono esistiti comunisti o presunti tali - oggi scomparsi, collassati con la “casa madre” URSS o con la stessa ideologia marxista disintegrata dal modernismo, dal moderno capitalismo finanziario e dalle ideologie radicali - abbiamo visto come costoro sono sempre stati caratterizzati da una grande contraddizione: da un lato consideravano, qui da noi, gli anglo americani dei “liberatori” e di essi erano stati fedeli sudditi. Dall’altro li vedevano, e qui dobbiamo dire giustamente, come imperialisti, aggressori della Corea, oppressori dell’America Latina, invasori del Vietnam, padroni delle Multinazionali e così via: USA = Colonialismo, massacri, bombardamenti, Cia, sfruttamento capitalista.
Ebbene: non si erano accorti, questi “comunisti rivoluzionari”, che gli americani non erano altro che gli stessi loro alleati, loro festeggiati, della “Liberazione” in Italia ?