Di Gianfredo Ruggiero
A seconda della convenienza la marcia su Roma viene
presentata come un colpo di stato incruento o come un tentativo di insurrezione
armata. Tesi inverosimile la prima in quanto i golpe li fanno i militari e in
totale segretezza, l’esatto contrario della marcia su Roma che fu una
manifestazione pubblica e ampiamente propagandata; versione fantasiosa la
seconda: non fu sparato un solo colpo e versata una sola goccia di sangue. In
quei giorni la vita a Roma, come nel resto d’Italia, proseguì nella totale normalità
e indifferenza. Le fabbriche, le scuole, i negozi e gli uffici pubblici
rimasero aperti. L’occupazione fascista di alcune Prefetture furono dei
semplici atti simbolici che non impedirono al personale di proseguire nella
loro attività, inoltresarebbero bastate quattro fucilate dell’esercito (la
capitale era difesa da 28.000 soldati) per disperdere i pericolosi sovversivi
“armati” di manganelli e qualche schioppo residuato bellico.
In realtà, nonostante la sua successiva mitizzazione, la
“marcia” fu essenzialmente una parata che, come vedremo, non influì minimamente
sulle sorti politiche dell’Italia.
Con questa prova di forza Mussolini voleva semplicemente
accelerare i tempi per ottenere la guida del Paese. Mentre organizzava le due
grandi manifestazioni di piazza, quella di Napoli del 24 ottobre e quella che
sarebbe passata alla storia come la Marcia su Roma del successivo 28 ottobre,
il futuro Duce trattava con i partiti dell’area governativa per costituire un
governo di coalizione. Quando due giorni dopo, il 30 ottobre del 1922, il Re
gli conferì l’incarico la lista dei Ministri era già pronta, di questa
compagine i fascisti erano solo tre. Vi erano rappresentate tutte le forze
parlamentari, eccetto socialisti e comunisti. In pratica fu un governo che oggi
definiremmo di larghe intese.
Senza il sostegno dei partiti cattolici e
liberaldemocratici, da quello popolare vicino al Vaticano a quello liberale di
Giolitti e Salandra, con appena 35 deputati, Mussolini non sarebbe mai andato
al potere. Il 16 Novembre si presentò al Parlamento dove ottenne alla Camera
una larghissima maggioranza (306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti).
Schiacciante fu la fiducia ottenuta al Senato dove i voti contrarti furono solo
19.
In Parlamento Mussolini incassò la piena fiducia di
personalità politiche di grande rilievo come i futuri presidenti della
Repubblica Enrico De Nicola e Giovanni Gronchi (che entrò nel governo come
sottosegretario all’industria e al commercio). Figuravano anche nomi importanti
del panorama politico italiano come quello di Alcide De Gasperi, futuro
Presidente del Consiglio nell’immediato dopoguerra, e dei precedenti capi del
Governo Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi e Orlando. La sua nomina fu salutata
con soddisfazione da personalità del mondo culturale e accademico come Luigi
Pirandello, Guglielmo Marconi e Giuseppe Ungaretti.
Mussolini, a soli 38 anni, ottenne quindi l’incarico di
formare il suo governo non in virtù di una manifestazione di piazza, seppur
massiccia e ben organizzata, bensì in forza delle sue capacità di mediazione
politica e di coinvolgimento sociale che lo indicavano come l’unico in grado di
reggere le sorti del paese in quel difficile momento storico.
Quando Mussolini assunse il potere l’Italia era in totale
disfacimento istituzionale. I governi cadevano uno dopo l’altro per
l’incapacità della classe dirigente liberale di affrontare gli enormi problemi
sociali ed economici che affliggevano il paese. I partiti di sinistra,
comunista e socialista, e le organizzazioni sindacali sapevano solo proporre
soluzioni demagogiche che miravano a fare dell’Italia uno Stato totalitario sul
modello sovietico (“bisogna fare come in Russia”, erano soliti dire).
Una guerra vittoriosa, ma disastrosa nelle conseguenze con i
suoi 600 mila morti e 900 mila feriti e mutilati, aveva creato un voragine nei
conti dello stato, distrutto l’agricoltura e frenato l’economia ancora
imperniata su un’industria bellica che stentava a riconvertirsi.
I soldati che tornavano dal fronte, una grande massa di
uomini provati fisicamente e distrutti moralmente, senza lavoro e prospettive,
venivano accolti con ostilità e sbeffeggiati da sinistre e pacifisti.
Il drammatico contrasto fra le precarie condizioni del
proletariato e dei contadini che avevano pagato un tributo di sangue e
sofferenze in trincea e il lusso esibito dai "pescicani", i nuovi
ricchi che avevano tratto enormi profitti dalla guerra, acuì le tensioni
sociali e contribuì, con l’aumento vertiginoso del costo della vita e il ritmo galoppante
dell’inflazione, a creare una miscela esplosiva.
Il malcontento popolare infine scoppiò in forme violente che
portarono alla formazioni di vere e proprie strutture paramilitari che
affiancavano l’azione politica dei partiti, come quella comunista degli “Arditi
del Popolo”. I sindacati proclamavano scioperi e occupazioni di fabbriche a cui
gli industriali rispondevano con serrate e licenziamenti. Nelle campagne le
leghe bianche e rosse si fronteggiavano tra loro e contro gli agrari. Le
manifestazioni di piazza si concludevano spesso con scontri a fuoco con le
forze di polizia che lasciavano sul selciato decine di morti e feriti.
Le violenze fasciste, su cui la storiografia ufficiale pone
grande enfasi, vanno inquadrate in questo contesto di guerra civile di tutti
contro tutti a cui la politica del palazzo non sapeva dare risposta.
Lemanganellate e l’olio di ricino dei fascisti furono la conseguenza delle
violenze ben più sanguinose di comunisti, socialisti e repubblicani che misero
a ferro e fuoco l’Italia e alle prevaricazioni e imposizioni dei sindacati
leninisti nelle fabbriche che caratterizzarono il tristemente noto biennio
rosso (1919-1920).
L’Italia, stanca e sfiduciata, era a un passo dal baratro.
Anche l’Europa e l’America guardavano con grande apprensione al nostro paese.
L’Italia era considerata una Nazione a rischio, pericolosamente vicina ad una
svolta di stampo sovietico che avrebbe potuto estendersi al resto del
Continente dove già si stavano affermando i partiti comunisti legati a Mosca attraverso
la Terza Internazionale (Komintern). Di conseguenza quando Mussolini fu
chiamato a reggere le sorti del paese molti tirarono un sospiro di sollievo, in
Italia e all’estero.
Mussolini inoltre, elemento non trascurabile, godeva di un
ampio consenso popolare senza il quale, mai e poi mai, avrebbe potuto
raggiungere il potere (se fosse bastata una grande manifestazione di piazza
condita con un po’ di violenza per conquistare il potere chiunque l’avrebbe
fatto).
Gli storici marxisti insistono ancora oggi a presentare il
Fascismo come braccio armato del capitalismo, composto quasi esclusivamente da
una minoranza facinorosa di piccoli borghesi ed ex militari ambiziosi e
frustrati. Le ricerche di Renzo De Felice, Arrigo Petacco e Indro Montanelli,
tra i più autorevoli e profondi conoscitori del Fascismo, dimostrano invece il
contrario. Quello mussoliniano fu un grande movimento di massa nel quale affluì
con entusiasmo gran parte della classe lavoratrice attratta dal programma
socialmente avanzato del movimento mussoliniano e stanca della litigiosità dei
partiti tradizionali e dell’inconcludente sindacalismo, come dimostrato dal
fatto che, in occasione della marcia su Roma, la social comunista CGL neppure
si azzardò a proclamare uno sciopero generale certa che si sarebbe concluso con
un flop.
Ottenuto l’incarico il nuovo governo si mise subito al
lavoro per risanare i conti pubblici, riassorbire la disoccupazione, rilanciare
l’economia e gettare le basi dello Stato Sociale.
Il 1° Aprile del 1924, dopo soli 18 mesi di governo, senza
imporre nuove tasse o incrementare quelle esistenti, il Ministro delle Finanze
De Stefani poté annunciare il raggiungimento del pareggio di bilancio.
Questo importante traguardo fu raggiunto grazie ad un
accorta gestione dei conti pubblici, alla riorganizzazione dell’amministrazione
statale e a un grande piano di opere pubbliche che diede slancio all’economia
con conseguente aumento del gettito fiscale. Il controllo del governo sul
sistema bancario, posto finalmente al servizio dell’economia nazionale, e lo
sganciamento dalle perverse logiche del mercato finanziario internazionale
crearono i presupposti per quello che sarebbe diventato il boom economico degli
anni trenta realizzato esclusivamente con risorse italiane (a differenza del
boom degli anni 60 avvenuto con capitali stranieri).
il 1° Ottobre del 1923, dopo appena un anno dalla sua nomina
a Ministro dell’Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile varò la più grande, e
a tutt’oggi unica, riforma organica della scuola italiana aperta a tutti i ceti
sociali (all’epoca la scuola era esclusivamente privata o confessionale).
Il Ministro Stefano Cavazzoni del Partito Popolare
predispose la riforma sanitaria per garantire a tutti gli italiani
un’assistenza pubblica e gratuita, seguita da un vasto piano di costruzione di
ospedali, ambulatori e una vasta rete di colonie elioterapiche che permisero di
sconfiggere malattie croniche come la tubercolosi e la TBC, allora molto
diffuse.
L’abolizione del lavoro minorile fu uno dei primi atti del
governo Mussolini che in pochi mesi gettò le basi di quello Stato Sociale
creato negli anni successivi (INPS, INAIL, TFR, settimana lavorativa di 40 ore,
contratti collettivi, ferie pagate, Magistratura del Lavoro, Statuto dei
lavoratori, ammortizzatori sociali, assegni famigliari, case popolari, asili
nido, ecc.) per dare dignità e sicurezza al mondo del lavoro,una pensione a
tutti gli italiani e che consentìdi abbassare il costo della vita per assorbire
la riduzione dei salari a seguito della drammatica crisi economica mondiale del
’29 che mandò in miseria tutte economie occidentali, America in testa (lo
stesso presidente Roosevelt ammise, per tentare con il suo New Deal di superare
la “grande depressione”, di essersi ispirato all’esperienza fascista).
Con queste credenziali Mussolini e i suoi alleati di governo
si presentarono nuovamente al corpo elettorale. Alle elezione del 6 aprile del
1924 le liste sostenute dal Partito Nazionale Fascista ottennero il 66,3 per
cento dei voti validi. Il successo fu amplificato dalla nuova legge elettorale
(legge Acerbo) che diede alla coalizione governativa la maggioranza assoluta
dei seggi: 374 deputati su un totale di 535.
Durante la campagna elettorale pressioni e intimidazioni da
parte fascista sicuramente ci furono, ma l’incidenza che ebbero sul risultato
elettorale, vista l’ampiezza del successo ottenuto, fu del tutto marginale. Lo
stesso Matteotti, nel suo celebre discorso alla Camera in cui si scagliò con
veemenza contro il governo, non poté citare e documentare che pochi episodi. Lo
storico Arrigo Petacco afferma al riguardo: “...in realtà, di casi di violenza
certamente ve ne furono, ma in generale tutto si era svolto nella normalità,
d’altra parte, con i brogli e le violenza non si raggiunge un risultato così
clamoroso”.
Con la sua violenza verbale, Matteotti si proponeva in
realtà di scavare un fossato incolmabile tra governo e opposizione per
ostacolare un eventuale accordo tra le parti.
Matteotti infatti non ignorava che Mussolini stava lavorando
per spostare l’asse del suo governo a sinistra. Già circolavano i nomi per un
rimpasto con ministri di area socialista: Bruno Buozzi, segretario della FIOM,
ministro tecnico; Ludovico D’Aragona della GGL al ministero del lavoro; Emilio
Caldara, ex sindaco di Milano alle Finanze; Rinaldo Rigola, altro sindacalista
socialista, ministro senza portafoglio. Numerosi socialisti, fra cui il
direttore del giornale “Lavoro” di Genova Giuseppe Canepa, erano indicati come
sottosegretari (Renzo De Felice, “Storia del Fascismo” pag. 28/29 e Arrigo
Petacco “l’Uomo della Provvidenza” pag. 70/71). Questa svolta politica era
vista come il fumo negli occhi non solo da Matteotti, ma anche dai ras fascisti
più oltranzisti come il cremonese Roberto Farinacci.
A capo di una solida e compatta maggioranza parlamentare e
forte dell’enorme consenso popolare e del prestigio internazionale di cui
godeva, Mussolini non aveva nessun interesse a far riesplodere tensioni e
violenze tra fazioni che avrebbero rigettato l’Italia nel caos, al contrario
aveva tutto l’interesse a stabilizzare e tranquillizzare il paese. I maggiori
problemi non gli venivano da una opposizione divisa e demoralizzata che
ritirandosi sull’Aventino aveva rinunciato a combattere, ma dall’interno, da
quei fascisti “puri e duri” che spingevano per la cosiddetta “seconda ondata”
al fine di abbattere la monarchia e ridimensionare il peso politico della
borghesia e del ceto industriale. Il sequestro ed il successivo assassinio di
Matteotti fu infatti opera di un terzetto squinternato di loschi individui
legati alle frange più fanatiche del fascismo estremo guidati da Amerigo
Dumini, un membro della polizia politica.
Una violentissima campagna di stampa sostenuta da una
opposizione ringalluzzita additava il Capo del Governo quale ispiratore del
sequestro Matteotti. Dopo giorni di angoscia, incerto tra l’apertura della
crisi, il cui sbocco sarebbe stato imprevedibile, e la svolta autoritaria,il 3
gennaio 1925 con il suo celebre discorso alla Camera Mussolini, pur non
essendone stato né il mandante né tanto meno l’ispiratore (la stessa vedova
Matteotti, Velia Ruffo, ne era convinta, come pure il suo principale accusatore
il giornalista Carlo Silvestri dopo aver acquisito nuove prove e
testimonianze), si assunse la responsabilità politica dell’assassinio.
Liquidata definitivamente l’opposizione rimasta spiazzata dagli eventi,
Mussolini si avviò verso il regime.
Un regime comunque blando (i crimini, su cui si pone grande
risalto, avvennero durante la guerra civile e da entrambe le parti) e basato
sul consenso popolare in virtù degli enormi successi ottenuti in campo
economico, sociale e internazionale.
Le sciagurate leggi razziali, una guerra mondiale più subita
che voluta, una tragica guerra fratricida (che ha permesso a molti ex-fascisti
di ricostruirsi una verginità politica saltando sul carro del vincitore), hanno
poi - in parte – vanificato e offuscato quanto di buono fu realizzato in quegli
anni.
Se ancora oggi, a 90 anni dalla Marcia su Roma e a dispetto
della storia, si insiste a criminalizzare il Fascismo e a sminuire i suoi
meriti è perché – diciamoci la verità - si ha paura del confronto tra i fatti del
regime e le chiacchiere dei partiti.
Gianfredo Ruggiero, presidente del Circolo Culturale
Excalibur - Varese (Italia)
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