lunedì 22 ottobre 2012

IL PATTO CHE AVREBBE SALVATO LA PACE

 
Politica estera tedesca anteguerra: Hitler appoggiava il trattato “MacDonald”

di: Alfio Faro*

Fra i tanti miti su Adolf Hitler accettati come fatti vi è quello che era un irragionevole guerrafondaio, incline alla conquista dell’Europa ed alla schiavizzazione di tutti i popoli del mondo. Ma come vedremo in questo saggio dell’intellettuale spagnolo Joaquin Bochaca, niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Hitler, nei fatti e nelle parole, dimostrò che tutto ciò che voleva era l’uguaglianza, racchiusa nei principi del Piano MacDonald, di cui la Germania di Hitler era firmataria. Se Francia Inghilterra e URSS avessero aderito al disarmo onesto e completo ed alla smobilitazione degli eserciti ed alla distruzione di tutti gli aeroplani da guerra, carri armati e navi da guerra, Hitler avrebbe aderito in un secondo.
Ma l’eguaglianza con la Germania nella forza militare era qualcosa che Francia ed Inghilterra non erano disposti ad accettare. Quindi il patto, firmato da Hitler (e Mussolini, n.d.t.), benchè firmato dalla Germania, non fu mai posto in effetto. Se inglesi e francesi avessero controfirmato il Piano, come avevano fatto Germania e Italia, la II guerra mondiale sarebbe stata evitata per le ragioni che vedremo.
La maggioranza dei tedeschi che avevano votato per Adolf Hitler era bene al corrente dei punti di forza del suo partito. Per quanto riguarda la politica estera, il programma prevedeva la cancellazione delle conseguenze del Trattato di Versailles, che tutti in Germania - non i soli nazionalsocialisti – chiamavano “Il diktat di Versailles”. Hitler basava la sua posizione sui termini del Trattato stesso. Per esempio, la clausola del disarmo, che era stata imposta dal presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, si riferiva a tutti i firmatari della convenzione, e non soltanto agli sconfitti tedeschi.
Nella conferenza sul disarmo marzo – novembre 1933, il delegato tedesco approvò, senza condizioni, il Piano MacDonald, presentato dal Primo Ministro britannico Ramsay MacDonald. Ecco la sostanza del cosiddetto “piano di compromesso”: La Germania era autorizzata a raddoppiare la forza della Reichswehr, che sarebbe cresciuta di 200.000 uomini. Alla Francia veniva proposta la riduzione di 200.000 soldati. Ma in aggiunta ai 200.000, alla Francia ne sarebbero stati proposti altri 200.000 per difendere il suo impero. L’Italia aveva il diritto di averne 200.000, più 50.000 per le sue colonie. La Polonia, con un popolazione metà di quella tedesca, aveva anch’essa il diritto a 200.000 uomini. Alla Cecoslovacchia erano permessi 100.000 soldati, ed alla Unione Sovietica 500.000. Mettendo insieme le forze della Francia e de suoi alleati in Europa, cioè Polonia, Belgio, Romania, Cecoslovacchia e Iugoslavia risulta un totale di oltre un milione, contro la Reichswehr di 200.000. La disparità delle forze era ulteriormente accentuata dal fatto che la Germania continuava, per il momento, a non avere diritto ad una flotta aerea da combattimento, mentre alla Francia venivano concessi 500 aerei, alla Polonia 200, al Belgio 150, ed alla “”Piccola Intesa” , legata alla Francia (Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania), non meno di 550. Questo piano si sarebbe realizzato in stadi durante il periodo di cinque anni. L’Inghilterra, come promotrice del piano, naturalmente si riservava la parte del leone: un esercito di 300.000 uomini per la “mother Country” e 600.000 per l’Impero. Naturalmente, gli eserciti imperiali dei Dominions come l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada, il Sudafrica e l’India non erano inclusi nel piano. Comunque il Piano ricevette una generale sperimentale approvazione. Fu concordato che, una volta tradotto in atto, sarebbe stato riesaminato dopo cinque anni allo scopo di studiare un secondo stadio, che avrebbe portato al disarmo generale.
In un discorso davanti al Reichstag, Hitler approvò il Piano MacDonald, ma diede un avvertimento: “Se la richiesta di eguale trattamento per la Germania rispetto alle altre nazioni e, specificatamente in questo caso, sui livelli di armamenti non fosse soddisfacente, preferirei ritirarmi dalla conferenza sul disarmo e dalla Lega delle Nazioni”. In poche parole: il Fuhrer accettava il piano di disarmo inglese come primo passo verso l’uguaglianza fra le maggiori potenze europee. Lo stesso Piano MacDonald prevedeva un secondo stadio che avrebbe condotto a quella uguaglianza dopo cinque anni. Il discorso di Hitler ebbe un effetto fortunato: suggeriva a Mussolini ed all’ambasciatore francese a Roma, Henri de Jouvenel, la firma di un patto delle quattro Nazioni (Italia, Francia, Inghilterra e Germania) che avrebbe, per effetto della solidarietà fra le quattro potenze, affermato la loro fede nella pace.
L’idea era buona. Il Parto fu firmato dai rappresentanti delle quattro Nazioni a Palazzo Venezia; ma non fu mai ratificato a causa della opposizione incontrata nei Parlamenti francese e inglese. E quindi, non ebbe alcun effetto. La fazione di Parigi, ancor più attiva di quella britannica in questa occasione, riuscì a bloccare il Patto.
Da parte francese non fu soltanto l’Assemblea Nazionale che boicottò il Patto a Quattro. Il delegato francese alla Conferenza sul disarmo, Paul Boncour, ne fu il principale nemico alla scopo di silurare il Piano, cui la Francia aveva dato inizialmente l’approvazione. Boncour richiese che prima di firmare l’accordo sul disarmo si sarebbe dovuto istituire uno studio sul controllo da esercitare sulla Germania. Nadolny, il delegato tedesco, disse che sarebbe stato d’accordo se esse (le quattro potenze) avessero studiato il controllo da esercitare su tutti e quattro i firmatari del Trattato, specialmente la Francia.
Non si giunse ad un accordo, e Sir John Simon capo della delegazione britannica, informò Rudolf Nadolny della delegazione tedesca,, circa “la impossibilità di permettere il riarmo della Germania e la necessità di creare una struttura per sorvegliare l’ottemperanza tedesca per un periodo di prova”.
Questo “periodo di prova” non fu specificato, né per il suo inizio né per la durata. Non fu detta una parola sul Piano MacDonald, né sul disarmo degli altri Stati. In altre parole, nonostante tutti i cofirmatari del Trattato di Versaglia si fossero impegnati per il disarmo, i vincitori della Prima Guerra mondiale (gli “Alleati”) si rifiutarono di conformarvisi; inoltre, avevano l’intenzione di mantenere la Germania quasi disarmata indefinitamente, e volevano sorvegliare la sua ottemperanza. Questa era una chiara violazione dei termini del Trattato di Versaglia ed, in pratica assolutamente impossibile.
Nessuno Stato sovrano al mondo avrebbe mai accettato di restare disarmato, circondato da Stati ostili, che peraltro si riarmavano tanto quanto volevano.
La Francia aveva un Trattato di mutua assistenza militare con i Paesi della “Piccola Intesa“, ed ancora un altro con la Polonia. Truppe irregolari polacche e lituane violavano costantemente le frontiere del Reich. Tali violazioni non erano simboliche, bensì estremamente pragmatiche. Nel 1921, per esempio, la truppe irregolari di Woiczech Korfanty cambiarono il confine germano-polacco nella Slesia superiore, occupando 2.000 km di territorio, nonostante un referendum avesse chiaramente mostrato il desiderio della maggioranza della popolazione di restare tedesca e non polacca. Korfanty e coloro che lo seguivano, fecero in modo di mettere il territorio sotto sovranità polacca, nonostante le blande proteste della Commissione di controllo alleata, che tollerò l‘illegalità. La reazione del governo tedesco fu immediata. Due giorni dopo il rifiuto di Sir John Simon praticamente obbligato dall’atteggiamento della delegazione francese, la Germania annunciò che sarebbe uscita simultaneamente dalla Conferenza per il disarmo e dalla Lega delle Nazioni. Quella notte, Hitler parlò a lungo alla radio per giustificare la sua decisione. Qui di seguito i passi che consideriamo essenziali: “E’ stato detto che al Governo tedesco ed il popolo è stato concesso di avere un esercito più grande e forte. Ciò è assolutamente falso. Noi abbiamo richiesto solamente eguali diritti. Se il mondo decide di distruggere le armi fino all’ultima mitragliatrice, siamo disposti a firmare tale accordo. Se il mondo decide di distruggere certe armi, siamo pronti a rinunciarvi. Ma se il mondo permette a certe Nazioni l’uso di certe armi, non desideriamo essere esclusi dal loro uso come se fossimo una Nazione di secondo rango. Desideriamo prendere parte a tutte le conferenze, desideriamo firmare tutte le convenzioni, ma solo a condizione di godere degli stessi diritti degli altri popoli. Da privato, non ho mai imposto la mia presenza in una società che non desidera a mia presenza o che mi consideri inferiore. Non ho mai imposto a nessuno di ricevermi, ed il popolo tedesco non ha meno dignità di quanto io ne abbia. O abbiamo gli stessi diritti degli altri popoli o il mondo non ci vedrà partecipi ad alcuna Conferenza. Sarà indetto un plebiscito in modo che ogni cittadino tedesco possa dire se ho ragione o se mi disapprova:” Come vedete, Hitler no n chiedeva altro che eguali diritti. Egli lo chiedeva ai rappresentanti dei governi democratici per i quali le parole “eguaglianza” come “libertà” e “fratellanza” sono un sacro dogma. Hitler chiedeva eguale trattamento per la Germania; ed in pratica, accettando il Patto MaDonald, riconosceva de facto la situazione e le obbligazioni che aveva la Francia come potenza coloniale ed accettava che a quest’ultima, veniva concesso il diritto di possedere un esercito il doppio di quello tedesco e godendo, inoltre, il sostegno di un’aviazione da combattimento. Il pretesto che avanza l‘establishment - come sempre, in tutti i casi - è che Hitler mentiva.
Questo argomento è senza valore. Se altre nazioni credevano che Hitler mentisse, vi erano ancora più ragioni per accettare il Piano - che, ironicamente, non era il “suo” piano, ma inglese, redatto dal Primo ministro laburista britannico Ramsay McDonald. Se fosse stato attuato, lo sarebbe stato ovviamente sotto il controllo della Commissione sul Disarmo, e come risultato sarebbe stato accertato che la risultante “eguaglianza” avrebbe visto la Germania con un esercito di 200.000 uomini e nessuna aviazione da combattimento, la Francia con 400.000, più l’aviazione, i membri della “Piccola Intesa” con 625.000 più 550 aerei, e la Polonia con 200.000, più 125 aerei. Per non parlare delle ”democrazie“ britannica e sovietica con 900.000 e 500.000 rispettivamente. E questo fino alla fine dei cinque anni, trascorsi i quali si sarebbero ripresi i colloqui per continuare a limitare per gradi gli eserciti dei cofirmatari. Se fosse emerso che Hitler mentiva, accettando il piano britannico per il disarmo, è chiaro che la Commissione di Controllo lo avrebbe percepito ed allora gli ”Alleati” avrebbero avuto mano libera nell’interrompere l’accordo ed avrebbero preso le misure punitive necessarie. La storia ci racconta che gli Alleati – i campioni teorici della democrazia, cioè dell’eguaglianza - si rifiutarono di applicare i loro stessi principi quando si trattava della Germania. Ciò deve essere inaccettabile per qualsiasi Nazione, specialmente una con la più grande popolazione d’Europa eccetto la Russia, e che richiedeva ai suoi partners soltanto l’applicazione dell’accordo per il disarmo che essi stessi avevano imposto nel Trattato di Versaglia. L’accettazione del Piano McDonald da parte di Hitler è sorprendente perché essa sanzionava, per almeno cinque anni, una posizione di formale “eguaglianza”, ma che nella situazione politica del momento lasciava la Germania con un esercito cinque volte più piccolo di quello della Francia e dei suoi alleati della “Little Entente”. E se contate la Polonia, la Germania sarebbe stata circondata da eserciti sei volte più grandi del suo, e senza aviazione per contrastare i 1.200 aerei del complesso francofilo. Hitler accettò perché il Piano certamente significava un passo avanti; e con un esercito, piccolo ma ben addestrato, eventi come l’occupazione militare della sponda sinistra del Reno effettuata dai francesi dici anni prima, non si sarebbe potuta ripetere, mentre le milizie irregolari polacche avrebbero dovuto anch’esse cessare la loro illegale attività. (Alla fine, il Piano MacDonald non fu accettato da nessuno dei cofirmatari. N.d.Ed.)

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Note
Bochaca, un avvocato dalla prosa tagliente, è un intellettuale, traduttore di Ezra Pound e di Hermann Hesse. Tratto da “The Barnes Review”, www.barnesrevue.com
Traduzioni:
Margaret Huffstickler e
Alfio Faro

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=17347

domenica 21 ottobre 2012

28 OTTOBRE 1922 la verità sulla Marcia su Roma


Di Gianfredo Ruggiero

A seconda della convenienza la marcia su Roma viene presentata come un colpo di stato incruento o come un tentativo di insurrezione armata. Tesi inverosimile la prima in quanto i golpe li fanno i militari e in totale segretezza, l’esatto contrario della marcia su Roma che fu una manifestazione pubblica e ampiamente propagandata; versione fantasiosa la seconda: non fu sparato un solo colpo e versata una sola goccia di sangue. In quei giorni la vita a Roma, come nel resto d’Italia, proseguì nella totale normalità e indifferenza. Le fabbriche, le scuole, i negozi e gli uffici pubblici rimasero aperti. L’occupazione fascista di alcune Prefetture furono dei semplici atti simbolici che non impedirono al personale di proseguire nella loro attività, inoltresarebbero bastate quattro fucilate dell’esercito (la capitale era difesa da 28.000 soldati) per disperdere i pericolosi sovversivi “armati” di manganelli e qualche schioppo residuato bellico.

In realtà, nonostante la sua successiva mitizzazione, la “marcia” fu essenzialmente una parata che, come vedremo, non influì minimamente sulle sorti politiche dell’Italia.

Con questa prova di forza Mussolini voleva semplicemente accelerare i tempi per ottenere la guida del Paese. Mentre organizzava le due grandi manifestazioni di piazza, quella di Napoli del 24 ottobre e quella che sarebbe passata alla storia come la Marcia su Roma del successivo 28 ottobre, il futuro Duce trattava con i partiti dell’area governativa per costituire un governo di coalizione. Quando due giorni dopo, il 30 ottobre del 1922, il Re gli conferì l’incarico la lista dei Ministri era già pronta, di questa compagine i fascisti erano solo tre. Vi erano rappresentate tutte le forze parlamentari, eccetto socialisti e comunisti. In pratica fu un governo che oggi definiremmo di larghe intese.

Senza il sostegno dei partiti cattolici e liberaldemocratici, da quello popolare vicino al Vaticano a quello liberale di Giolitti e Salandra, con appena 35 deputati, Mussolini non sarebbe mai andato al potere. Il 16 Novembre si presentò al Parlamento dove ottenne alla Camera una larghissima maggioranza (306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti). Schiacciante fu la fiducia ottenuta al Senato dove i voti contrarti furono solo 19.

In Parlamento Mussolini incassò la piena fiducia di personalità politiche di grande rilievo come i futuri presidenti della Repubblica Enrico De Nicola e Giovanni Gronchi (che entrò nel governo come sottosegretario all’industria e al commercio). Figuravano anche nomi importanti del panorama politico italiano come quello di Alcide De Gasperi, futuro Presidente del Consiglio nell’immediato dopoguerra, e dei precedenti capi del Governo Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi e Orlando. La sua nomina fu salutata con soddisfazione da personalità del mondo culturale e accademico come Luigi Pirandello, Guglielmo Marconi e Giuseppe Ungaretti.

Mussolini, a soli 38 anni, ottenne quindi l’incarico di formare il suo governo non in virtù di una manifestazione di piazza, seppur massiccia e ben organizzata, bensì in forza delle sue capacità di mediazione politica e di coinvolgimento sociale che lo indicavano come l’unico in grado di reggere le sorti del paese in quel difficile momento storico.

Quando Mussolini assunse il potere l’Italia era in totale disfacimento istituzionale. I governi cadevano uno dopo l’altro per l’incapacità della classe dirigente liberale di affrontare gli enormi problemi sociali ed economici che affliggevano il paese. I partiti di sinistra, comunista e socialista, e le organizzazioni sindacali sapevano solo proporre soluzioni demagogiche che miravano a fare dell’Italia uno Stato totalitario sul modello sovietico (“bisogna fare come in Russia”, erano soliti dire).

Una guerra vittoriosa, ma disastrosa nelle conseguenze con i suoi 600 mila morti e 900 mila feriti e mutilati, aveva creato un voragine nei conti dello stato, distrutto l’agricoltura e frenato l’economia ancora imperniata su un’industria bellica che stentava a riconvertirsi.

I soldati che tornavano dal fronte, una grande massa di uomini provati fisicamente e distrutti moralmente, senza lavoro e prospettive, venivano accolti con ostilità e sbeffeggiati da sinistre e pacifisti.

Il drammatico contrasto fra le precarie condizioni del proletariato e dei contadini che avevano pagato un tributo di sangue e sofferenze in trincea e il lusso esibito dai "pescicani", i nuovi ricchi che avevano tratto enormi profitti dalla guerra, acuì le tensioni sociali e contribuì, con l’aumento vertiginoso del costo della vita e il ritmo galoppante dell’inflazione, a creare una miscela esplosiva.

Il malcontento popolare infine scoppiò in forme violente che portarono alla formazioni di vere e proprie strutture paramilitari che affiancavano l’azione politica dei partiti, come quella comunista degli “Arditi del Popolo”. I sindacati proclamavano scioperi e occupazioni di fabbriche a cui gli industriali rispondevano con serrate e licenziamenti. Nelle campagne le leghe bianche e rosse si fronteggiavano tra loro e contro gli agrari. Le manifestazioni di piazza si concludevano spesso con scontri a fuoco con le forze di polizia che lasciavano sul selciato decine di morti e feriti.

Le violenze fasciste, su cui la storiografia ufficiale pone grande enfasi, vanno inquadrate in questo contesto di guerra civile di tutti contro tutti a cui la politica del palazzo non sapeva dare risposta. Lemanganellate e l’olio di ricino dei fascisti furono la conseguenza delle violenze ben più sanguinose di comunisti, socialisti e repubblicani che misero a ferro e fuoco l’Italia e alle prevaricazioni e imposizioni dei sindacati leninisti nelle fabbriche che caratterizzarono il tristemente noto biennio rosso (1919-1920).

L’Italia, stanca e sfiduciata, era a un passo dal baratro. Anche l’Europa e l’America guardavano con grande apprensione al nostro paese. L’Italia era considerata una Nazione a rischio, pericolosamente vicina ad una svolta di stampo sovietico che avrebbe potuto estendersi al resto del Continente dove già si stavano affermando i partiti comunisti legati a Mosca attraverso la Terza Internazionale (Komintern). Di conseguenza quando Mussolini fu chiamato a reggere le sorti del paese molti tirarono un sospiro di sollievo, in Italia e all’estero.

Mussolini inoltre, elemento non trascurabile, godeva di un ampio consenso popolare senza il quale, mai e poi mai, avrebbe potuto raggiungere il potere (se fosse bastata una grande manifestazione di piazza condita con un po’ di violenza per conquistare il potere chiunque l’avrebbe fatto).

Gli storici marxisti insistono ancora oggi a presentare il Fascismo come braccio armato del capitalismo, composto quasi esclusivamente da una minoranza facinorosa di piccoli borghesi ed ex militari ambiziosi e frustrati. Le ricerche di Renzo De Felice, Arrigo Petacco e Indro Montanelli, tra i più autorevoli e profondi conoscitori del Fascismo, dimostrano invece il contrario. Quello mussoliniano fu un grande movimento di massa nel quale affluì con entusiasmo gran parte della classe lavoratrice attratta dal programma socialmente avanzato del movimento mussoliniano e stanca della litigiosità dei partiti tradizionali e dell’inconcludente sindacalismo, come dimostrato dal fatto che, in occasione della marcia su Roma, la social comunista CGL neppure si azzardò a proclamare uno sciopero generale certa che si sarebbe concluso con un flop.

Ottenuto l’incarico il nuovo governo si mise subito al lavoro per risanare i conti pubblici, riassorbire la disoccupazione, rilanciare l’economia e gettare le basi dello Stato Sociale.

Il 1° Aprile del 1924, dopo soli 18 mesi di governo, senza imporre nuove tasse o incrementare quelle esistenti, il Ministro delle Finanze De Stefani poté annunciare il raggiungimento del pareggio di bilancio.

Questo importante traguardo fu raggiunto grazie ad un accorta gestione dei conti pubblici, alla riorganizzazione dell’amministrazione statale e a un grande piano di opere pubbliche che diede slancio all’economia con conseguente aumento del gettito fiscale. Il controllo del governo sul sistema bancario, posto finalmente al servizio dell’economia nazionale, e lo sganciamento dalle perverse logiche del mercato finanziario internazionale crearono i presupposti per quello che sarebbe diventato il boom economico degli anni trenta realizzato esclusivamente con risorse italiane (a differenza del boom degli anni 60 avvenuto con capitali stranieri).

il 1° Ottobre del 1923, dopo appena un anno dalla sua nomina a Ministro dell’Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile varò la più grande, e a tutt’oggi unica, riforma organica della scuola italiana aperta a tutti i ceti sociali (all’epoca la scuola era esclusivamente privata o confessionale).

Il Ministro Stefano Cavazzoni del Partito Popolare predispose la riforma sanitaria per garantire a tutti gli italiani un’assistenza pubblica e gratuita, seguita da un vasto piano di costruzione di ospedali, ambulatori e una vasta rete di colonie elioterapiche che permisero di sconfiggere malattie croniche come la tubercolosi e la TBC, allora molto diffuse.

 L’abolizione del lavoro minorile fu uno dei primi atti del governo Mussolini che in pochi mesi gettò le basi di quello Stato Sociale creato negli anni successivi (INPS, INAIL, TFR, settimana lavorativa di 40 ore, contratti collettivi, ferie pagate, Magistratura del Lavoro, Statuto dei lavoratori, ammortizzatori sociali, assegni famigliari, case popolari, asili nido, ecc.) per dare dignità e sicurezza al mondo del lavoro,una pensione a tutti gli italiani e che consentìdi abbassare il costo della vita per assorbire la riduzione dei salari a seguito della drammatica crisi economica mondiale del ’29 che mandò in miseria tutte economie occidentali, America in testa (lo stesso presidente Roosevelt ammise, per tentare con il suo New Deal di superare la “grande depressione”, di essersi ispirato all’esperienza fascista).

Con queste credenziali Mussolini e i suoi alleati di governo si presentarono nuovamente al corpo elettorale. Alle elezione del 6 aprile del 1924 le liste sostenute dal Partito Nazionale Fascista ottennero il 66,3 per cento dei voti validi. Il successo fu amplificato dalla nuova legge elettorale (legge Acerbo) che diede alla coalizione governativa la maggioranza assoluta dei seggi: 374 deputati su un totale di 535.

Durante la campagna elettorale pressioni e intimidazioni da parte fascista sicuramente ci furono, ma l’incidenza che ebbero sul risultato elettorale, vista l’ampiezza del successo ottenuto, fu del tutto marginale. Lo stesso Matteotti, nel suo celebre discorso alla Camera in cui si scagliò con veemenza contro il governo, non poté citare e documentare che pochi episodi. Lo storico Arrigo Petacco afferma al riguardo: “...in realtà, di casi di violenza certamente ve ne furono, ma in generale tutto si era svolto nella normalità, d’altra parte, con i brogli e le violenza non si raggiunge un risultato così clamoroso”.

Con la sua violenza verbale, Matteotti si proponeva in realtà di scavare un fossato incolmabile tra governo e opposizione per ostacolare un eventuale accordo tra le parti.

Matteotti infatti non ignorava che Mussolini stava lavorando per spostare l’asse del suo governo a sinistra. Già circolavano i nomi per un rimpasto con ministri di area socialista: Bruno Buozzi, segretario della FIOM, ministro tecnico; Ludovico D’Aragona della GGL al ministero del lavoro; Emilio Caldara, ex sindaco di Milano alle Finanze; Rinaldo Rigola, altro sindacalista socialista, ministro senza portafoglio. Numerosi socialisti, fra cui il direttore del giornale “Lavoro” di Genova Giuseppe Canepa, erano indicati come sottosegretari (Renzo De Felice, “Storia del Fascismo” pag. 28/29 e Arrigo Petacco “l’Uomo della Provvidenza” pag. 70/71). Questa svolta politica era vista come il fumo negli occhi non solo da Matteotti, ma anche dai ras fascisti più oltranzisti come il cremonese Roberto Farinacci.

A capo di una solida e compatta maggioranza parlamentare e forte dell’enorme consenso popolare e del prestigio internazionale di cui godeva, Mussolini non aveva nessun interesse a far riesplodere tensioni e violenze tra fazioni che avrebbero rigettato l’Italia nel caos, al contrario aveva tutto l’interesse a stabilizzare e tranquillizzare il paese. I maggiori problemi non gli venivano da una opposizione divisa e demoralizzata che ritirandosi sull’Aventino aveva rinunciato a combattere, ma dall’interno, da quei fascisti “puri e duri” che spingevano per la cosiddetta “seconda ondata” al fine di abbattere la monarchia e ridimensionare il peso politico della borghesia e del ceto industriale. Il sequestro ed il successivo assassinio di Matteotti fu infatti opera di un terzetto squinternato di loschi individui legati alle frange più fanatiche del fascismo estremo guidati da Amerigo Dumini, un membro della polizia politica.

Una violentissima campagna di stampa sostenuta da una opposizione ringalluzzita additava il Capo del Governo quale ispiratore del sequestro Matteotti. Dopo giorni di angoscia, incerto tra l’apertura della crisi, il cui sbocco sarebbe stato imprevedibile, e la svolta autoritaria,il 3 gennaio 1925 con il suo celebre discorso alla Camera Mussolini, pur non essendone stato né il mandante né tanto meno l’ispiratore (la stessa vedova Matteotti, Velia Ruffo, ne era convinta, come pure il suo principale accusatore il giornalista Carlo Silvestri dopo aver acquisito nuove prove e testimonianze), si assunse la responsabilità politica dell’assassinio. Liquidata definitivamente l’opposizione rimasta spiazzata dagli eventi, Mussolini si avviò verso il regime.

Un regime comunque blando (i crimini, su cui si pone grande risalto, avvennero durante la guerra civile e da entrambe le parti) e basato sul consenso popolare in virtù degli enormi successi ottenuti in campo economico, sociale e internazionale.

Le sciagurate leggi razziali, una guerra mondiale più subita che voluta, una tragica guerra fratricida (che ha permesso a molti ex-fascisti di ricostruirsi una verginità politica saltando sul carro del vincitore), hanno poi - in parte – vanificato e offuscato quanto di buono fu realizzato in quegli anni.

Se ancora oggi, a 90 anni dalla Marcia su Roma e a dispetto della storia, si insiste a criminalizzare il Fascismo e a sminuire i suoi meriti è perché – diciamoci la verità - si ha paura del confronto tra i fatti del regime e le chiacchiere dei partiti.


Gianfredo Ruggiero, presidente del Circolo Culturale Excalibur - Varese (Italia)

QUANDO LA FINANZA GUIDA LA POLITICA


di Filippo Giannini

   In uno dei nostri precedenti articoli abbiamo accennato alla dura sentenza di George N. Crocker riguardo la persona del Presidente Franklin Delano Roosevelt. In base a considerazioni oggettive, da recenti documenti e grazie al lavoro di validi studiosi, risulta che Roosevelt non solo sapeva dell’attacco nipponico su Pearl Harbor, ma addirittura lo aveva  accuratamente preparato.

   Dalla fine del ’29 (anno della grande crisi economica) alla fine degli anni ’30 assistiamo ad un fiorire di nuove idee che partivano dalla vecchia Europa (della quale l’Italia fascista era alla guida), idee che mettevano in discussione l’assetto finanziario e politico mondiale, i cui  vertici risiedevano a Londra e a New York.

   Ma il Presidente statunitense aveva un ostacolo da superare: il suo popolo era decisamente contrario ad esser coinvolto in una nuova guerra.

   Quando gli americani concessero per la terza volta la presidenza a Roosevelt, erano convinti che questi avrebbe difeso la neutralità, la pace e l’impegno assunto di non farsi coinvolgere in nuove avventure. Roosevelt sapeva benissimo che la promessa chiestagli dal  Paese doveva essere garantita in modo chiaro: il non mantenerla gli sarebbe costata la sconfitta e la non  rielezione. Perciò questo impegno fu enunciato in modo solenne; pochi giorni prima delle consultazioni elettorali, nell’arena di Boston Roosevelt assicurò: <Parlo a voi, madri e padri, per rassicurarvi su un’altra cosa. L’ho già detto, in verità, ma lo ripeto ancora e ancora: i vostri figli non saranno mandati a combattere una guerra straniera!>.

   Vediamo con quale astuzia e, dobbiamo darne atto, con quale capacità Roosevelt riuscì “a ingannare, prendere in giro, beffare” il popolo americano.

   Ottobre 1939 (la guerra in Europa era già esplosa): il Presidente americano, agendo con scaltrezza, riuscì a far passare la legge “cash and carry” che autorizzava la vendita di armi e munizioni a tutte le nazioni disposte a pagarle in contanti, purché ne assicurassero il trasporto a proprio carico. Ciò favoriva le due grandi potenze navali che si affacciavano sull’Atlantico: Gran Bretagna e Francia. Ma questa disposizione faceva seguito ad un atto che vide la luce nel settembre del 1939, quando <ventuno repubbliche riunite a Panama City stabilirono una “zona di sicurezza”, che circondava le due Americhe a sud del Canada e si spingeva in alto mare da 250 a 1250 miglia; in tale zona le potenze belligeranti dovevano astenersi da atti di ostilità>. (“Storia degli Stati Uniti” di Schlesinger). Era un atto senza precedenti nel diritto internazionale: un atto che mirava ad avvicinare i convogli Usa alla Gran Bretagna di mille miglia in “zona di sicurezza”. Questo fu tanto apprezzato da Winston Churchill che nella sua “Storia della Seconda Guerra Mondiale” scrive: <Il 16 settembre, per la prima volta, i nostri convogli diretti ad Halifax fruirono della protezione diretta di unità navali americane>.

   Anche se solo formalmente, gli Usa erano ancora neutrali; ma quelle messe in opera dal presidente americano erano vere e proprie  provocazioni, non ancora raccolte dai governi di Roma e Berlino.

   La politica rooseveltiana di pressione sulle potenze del Tripartito continuava, ma sempre in modo da lasciare negli americani la convinzione che il loro presidente mai li avrebbe trascinati in una nuova avventura bellica.

   Nel novembre 1940 Roosevelt decise che l’Inghilterra doveva essere <l’arsenale della democrazia>: quindi a quel Paese sarebbe stata assegnata metà della produzione bellica statunitense.

   Un nuovo provvedimento, che è un ulteriore passo verso la guerra, è riportato dal “Dizionario Mondatori di Storia Universale”: <Nel marzo 1941 (Roosevelt) fa votare dal Congresso la legge “affitti e prestiti” che stabilisce una vera collaborazione tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e può essere estesa a tutti i Paesi “la cui difesa il presidente giudicherà essenziali per la sicurezza degli Stati Uniti”>.

   Luglio 1941: la neutralità? Truppe americane sbarcarono in Islanda e vi stabilirono basi militari.

   Nell’iter di Roosevelt verso la guerra una nuova tappa fu la chiusura  dei Consolati tedeschi e italiani negli Stati Uniti, mentre quelli in Germania e in Italia continuavano a svolgere regolarmente le loro funzioni. A questa disposizione fece seguito l’ordine di sequestrare tutte le navi tedesche e italiane ancorate nei porti statunitensi, con conseguente internamento degli  equipaggi. Gli Stati Uniti erano ancora un “Paese neutrale”.

   Nel 1942 Clara Boothe Luce (poi ambasciatrice americana in Italia) dirà a Fish (congressman repubblicano e convinto non-interventista) che <Roosevelt ha ingannato tutti noi impegnandoci in questa guerra col Giappone che a lui serve per intervenire nel conflitto europeo passando attraverso la porta di servizio>.

   Le parole di Clara Boothe Luce trovano conferma nei fatti. A metà agosto il Governo giapponese era retto dal principe Konoye, un moderato che ripetutamente proponeva un incontro personale con il presidente americano per raggiungere un accordo pacifico. E’ bene ricordare che già nell’aprile 1940 Roosevelt era riuscito ad imporre l’embargo del petrolio, tanto che la produzione industriale giapponese aveva subito una riduzione che stava portando la popolazione alla fame.

   La marcia delle “forze del bene” verso il conflitto era inarrestabile. Il Canale di Panama fu interdetto al transito del naviglio nipponico e negati i rifornimenti. Un’ordinanza presidenziale del 26 luglio 1941 prescrisse l’immediato congelamento di tutti i beni giapponesi e l’aggravamento dell’embargo, proibendo, di fatto, il commercio esistente fra gli Stati Uniti e il Giappone.

   Da “Lo stalinista Roosevelt”: <L’ammiraglio Stark, che al tempo dell’embargo era a Washington il più alto rappresentante della Marina, ammise sinceramente che a quel tempo non c’era alto ufficiale a Washington che non sapesse che quell’ordinanza di embargo significava semplicemente l’inizio della guerra; Roosevelt era riuscito a mettere le fette di salame sugli occhi degli americani, è vero, ma non su quelli dell’ammiraglio Stark, il quale non se la sentì neppure di biasimare pubblicamente i giapponesi. Al momento dell’embargo aveva detto: “Beh, se io fossi giapponese, a questo punto andrei anch’io a cercare il petrolio dove si trova!”>.

   Gli Stati Uniti erano il principale importatore di seta grezza e il Giappone il più grande produttore ed esportatore. Da il “New York Time” del 2 agosto 1941: <Egli (Roosevelt) ordinò alla Direzione Generale della Produzione e al Ministro dell’Industria che venisse immediatamente sospesa la lavorazione  della seta grezza per uso civile (…)>.

   Durante questa serie di ostilità i giapponesi oscillarono dapprima fra il desiderio di pace e l’ira, fra l’educatissima condiscendenza e la rabbia. Questo popolo alacre guardava oltre i Mari del Sud, oltre il Mar del Giappone, là dove stavano le risorse naturali di cui aveva bisogno:  e non erano mire di grandezza, quelle che esso nutriva, quanto legittime necessità di sopravvivenza.

   L’ambasciatore americano a Tokio, Joseph C. Grew, fece sinceri tentativi per organizzare un incontro tra il principe Konoye e il presidente Roosevelt, ma questi <lo mise a tacere con una tracotanza che fu possibile soltanto perché il pubblico americano non sapeva nulla in proposito>. L’arroganza di Roosevelt giunse al punto di far sapere (Gorge N. Crocker) <che non avrebbe aderito ad un incontro col premier giapponese se costui non avesse prima formalmente dichiarato di sottoscrivere a “priori” qualunque condizione gli potesse venire imposta>.

   Continua Crocker: <Ma perfino a queste condizioni, il principe Konoye supplicò ancora il presidente Roosevelt di concedergli un colloquio per un tentativo di pace; fu nuovamente maltrattato e il risultato non tardò a manifestarsi per quello che l’ambasciatore Grew aveva profetizzato. Con la caduta del Governo Konoye  ogni speranza di pace perì miseramente; la dittatura militare del Governo Hideki Tojo (1) ebbe le redini del potere assoluto del Giappone. Gli americani lessero sui giornali che il governo Konoye era caduto, ma non seppero mai chi gli avesse dato lo “spintone brutale”>.
   8 agosto 1941: mancano tre mesi all’attacco dei giapponesi a Pearl Harbor, quando Churchill e Roosevelt stabiliscono un incontro segreto a Terranova. E’ molto probabile che in quella occasione venne fissato il momento dell’entrata in guerra  degli Stati Uniti. Al termine dell’incontro Churchill rilasciò al “New York Time” un’intervista  nella quale, fra l’altro, disse: <Gli accordi con Roosevelt sono qualcosa di ancor più maestoso  e sublime: sì, la crociata delle “forze del bene” contro le “forze del male”>.
   Superfluo indicare da quale parte stessero il “bene”  e il “male”. Come è superfluo chiedersi se Churchill si rendesse conto che con quegli accordi liquidava l’Impero britannico, per trasferirlo oltre Atlantico.
   Ancora più enfaticamente il premier inglese si rivolse ai marinai della corazzata “Prince of Walles” che lo riportava in Patria: <Abbiamo cantato “avanti soldati di Cristo” e, vi assicuro, ho sentito che non era superbia  e presunzione la nostra, ma che avevamo il diritto di sapere che stavamo per servire una santa causa per la quale lassù le trombe d’argento avevano suonato>.
   Un ulteriore passo verso la guerra fu l’ordine di Roosevelt di congelare tutti i beni giapponesi negli Stati Uniti. Inghilterra e Olanda si allinearono all’azione statunitense.
   L’attacco giapponese contro Pearl Harbor avvenne alle ore 8 di domenica 7 dicembre 1941, e la notizia  fu data per radio il pomeriggio di quello stesso giorno. Questa suscitò dapprima incredulità, che si trasformò poi in furore e in quella di vendicarsi: proprio come era nei progetti del presidente americano. Così, sia il popolo americano che quello giapponese erano caduti nella trappola preparata dal presidente e dal suo “staff”.
   E’ superfluo qui rammentare i fatti che documentano come Roosevelt fosse a conoscenza dell’attacco giapponese. Ma quanto abbiamo esposto può servire a stabilire qualche affinità fra quanto avvenne nel lontano dicembre 1941 e quanto avvenuto l’11 settembre 2001.
   La crisi economica che negli Stati Uniti durava dal 1929 fu superata con l’entrata in guerra nel 1941.
   Nei giornali di questi giorni leggiamo: <4 mila ebrei americani e israeliani che lavoravano negli uffici del World Trade Center non si sono presentati al lavoro il giorno dell’attentato perché “avvertiti in anticipo degli attacchi dal Servizio segreto israeliano Mossad”>. Se la notizia trovasse conferma sarebbe esplosiva.
   Alcuni Paesi del Medio Oriente, ricchi di petrolio, ancora riottosi al volere di Wall Street, dovranno ora vedersela con il “furore e l’ implacabile determinazione alla vendetta” del popolo americano.
   E guerra fu…! E di tutto quel che segue, di cui godiamo le conseguenze!
                                                                                                                              
 

1)      Hideki Toyo e altri 900 esponenti del Giappone furono impiccati tra il 1946 e il 1948 dagli americani quali “criminali di guerra”. Classico esempio di civiltà degli angeli del bene.

mercoledì 17 ottobre 2012

LIBERAZIONE ?

 
La primavera del 1945, com’è ormai risaputo e accettato, fu caratterizzata dalla ferocia più disumana. Uccisioni, atroci torture, linciaggi, stupri, sadiche violenze, rapine, saccheggi.
Prese particolarmente di mira le donne dei fascisti: madri, mogli, figlie e le ausiliarie, le eroiche volontarie che erano entrate nei ranghi militari della RSI.

Ma uccisioni anche di sacerdoti, proprietari terrieri, imprenditori, si susseguirono per molti mesi, mentre uno Stato impotente e/o connivente lasciava fare.

Sull’argomento è già stato scritto molto e chi volesse documentarsi, non ha che l’imbarazzo della scelta; perciò sorvolo su tante stragi a guerra finita, che hanno gettato una grondante placca di ignominia su tutto il popolo italiano[1].

Era il frutto ineluttabile dell’odio senza limiti seminato dai rossi e dai loro complici nella guerra civile.

Una barbara strategia, estranea alla civiltà europea, quella dei comunisti e di tanti altri antifascisti - utili e feroci idioti strumentalizzati dai primi - per conquistare il potere nello Stato che gli veniva regalato dagli “Alleati”.

Secondo quanto ammette lo storico antifascista e partigiano Giorgio Bocca: « Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce » ( sic!)[2].

La stessa feroce strategia fu continuata metodicamente e cinicamente, con sadica efferatezza, anche e soprattutto dopo la resa delle forze fasciste. Infatti la teoria della guerra partigiana « incarna l’ostilità assoluta, perde la distinzione tra nemico e criminale[…..] cessa non con la pace negoziata , ma con lo sterminio[…..] si svolge in base al terrorismo» .[3]

Mi si conceda una rapida pennellata per tratteggiare il clima, assurdo fino all’alienazione, di quell’epoca.

Voglio accennare soltanto a qualche passo del libro di Ulderico Munzi, Donne di Salò,[4] dove si lascia parlare un’ausiliaria che aveva conservato la sua verginità - come si usava ancora diffusamente a quei tempi - «fino a quegli infami giorni dell’aprile-maggio 1945».

Dopo venti, forse trenta stupri, demenzialmente annientanti, si trattava ancora della costrizione allucinante, imposta da partigiani schierati in un cortile, in orrenda coreografia, con la pretesa di farsi baciare i loro membri «penduli, flosci, colore della vinaccia» da ausiliarie e donne fasciste, o ritenute tali, costrette a schierarsi di fronte a loro in ginocchio.

La nostra ausiliaria, spezzata nel fisico, ma immarcescibile nell’animo, ci sputò sopra. E fu subito presa ferocemente a calci, rotolata per terra a calci, fino a perdere misericordiosamente i sensi, mentre gli “eroi” continuavano ad accanirsi contro quel mucchietto di cenci inanimato.

Ostilità assoluta.

Ci hanno spiegato, infatti, che l’ostilità dei comunisti e degli altri utili e feroci idioti, poteva finire esclusivamente con lo sterminio. E quando non si riuscì con lo sterminio fisico, si tentò con lo sterminio morale.

E sterminio fu, per mesi e mesi.

I giovanissimi sottotenenti dell’esercito repubblicano Gino Lorenzi e Walter Tafani furono crocifissi a Mignagola (TV) e a Cavazze (MO), e tanti altri furono crocifissi in Romagna ai portoni delle stalle; in Liguria invece, spinsero la ferocia fino a gettare fascisti ancora vivi nei forni del pane o in enormi caldaie di acqua bollente e negli alti forni, forse ispirandosi ai più feroci episodi della rivoluzione bolscevica o agli orrendi supplizi delle persecuzioni ai martiri cristiani.

E non mancarono i roghi, come avvenne, pure eccezionalmente fuori dell’area più interessata dalle stragi, a Francavilla Fontana (Brindisi), dove l’otto maggio del 1945 vennero gettati, ancora vivi sul rogo preparato nella piazza principale del paese i due fratelli Chionna soltanto perché di fede fascista.

Vennero commemorati nel 1946, nel primo numero del periodico fascista clandestino Alba di riscossa, edito a

Cisternino (BR).[5]

In provincia di Ferrara la famigerata banda di Portoverrara nel maggio 1945 assassinò tre uomini dopo averli evirati, aver loro strappate le unghie, i denti e spezzata la spina dorsale; un branco di megere linciò un uomo a Quartesana strappandogli gli occhi. Ma bisogna riconoscere obiettivamente che la banda di Portoverrara non era neanche una delle più feroci.


A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto in una carrozzella, il 29 aprile, venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto; ma furono più feroci gli uomini delle bestie che lo straziarono per cibarsene.


E avvenne anche in altri posti, come a Grosseto, dove la Vedova e le figlie, bambine, del fascista Faenzi peregrinarono per anni per scoprire dov’era stato sepolto il loro congiunto, ucciso dai partigiani, incontrando un muro di ostilità, diffidenza e omertà fin nei più sperduti poderi, finché non riuscirono a scoprire che il corpo del Martire era stato lasciato divorare dai porci.

 
A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli. Quindi condotte vicino al cimitero furono sepolte vive.


Questo era il clima della Rossa Primavera”.

Dopo oltre cinquant’anni i Santoro, i Biagi e la “ridondante” schiera dei pennivendoli allineati nel politically correct, continuano il coro degli osanna, insensibili ad ogni resipiscenza. Vergogna!

Il Papa ha chiesto scusa ai mussulmani per le violenze commesse dai crociati.

Un capo di stato tedesco è venuto in Italia a chiedere scusa per la strage di Marzabotto (che pure era stata una rappresaglia contenuta nei limiti delle leggi di guerra, e coscientemente provocata dai partigiani, che non ritennero di impegnarsi poi nella difesa della popolazione inerme).

Quando accadrà che un capo di stato italiano chieda scusa agli italiani per le stragi della “rossa primavera” e per l’ignominia che ne è ricaduta su tutto il popolo?

Francesco Fatica


[1] Vedi Giorgio Pisanò su Gente anni 1959-1960, 18 puntate illustrate da 400 fotografie, poi raccolte nel volume Il vero volto della guerra civile, Rusconi, Milano, 1961; sempre di G. Pisanò, Sangue chiama sangue (Edizioni FPE, Milano1962 e successive edizioni) e ancora Storia della guerra civile in Italia 1943-1945 (CEN, Roma, 1965); Gli ultimi in grigioverde (CDL Edizioni, Milano, 1968); Il triangolo della morte (1992) e ancora Antonio Serena I giorni di Caino, Panda, Padova, 1990 e Gianni Oliva La resa dei conti, Mondadori, Milano 1999; Enrico Accolla, Lotta su tre fronti. Introduzione alla Storia della Repubblica Sociale Italiana, Greco & Greco Editori, Milano, 1992.
Si vedano anche i periodici: Nuovo fronte e L'ultima crociata, dell'Ass.ne naz.le famiglie dei Caduti e Dispersi della RSI.
[2] Giorgio Bocca, Storia dell'Italia partigiana, Laterza, Bari, 1966, pp.165-166.
[3] N. Matteucci, voce "resistenza", del Dizionario di politica diretto da Bobbio, Matteucci e Pasquino, Milano, 1991, in Storia del XX secolo, n. 56, febbraio 2000, citato da M. Ingrassia "La crisi italiana del '43 e il fascismo clandestino."
[4] Ulderico Munzi, Donne di Salò, Sperling & Kupfer, Milano, 1999, pp. 155-157.
[5] Lettera di Quirico Punzi all’estensore in data 29.03.2001.
 

giovedì 11 ottobre 2012

Solo riconciliandoci con il passato ritroveremo la serenità del presente

di Francesco Lamendola - 11/10/2012
Fonte: ariannaeditrice

 
C’è una ferita, nel cuore della coscienza nazionale degli Italiani, che continua a sanguinare e che non si rimargina mai, perché è stata troppo a lungo ignorata, negata o perfino insultata: quella dei morti della nostra guerra civile, dei morti d’entrambe le parti; dei torturati, degli impiccati, dei fucilati, degli infoibati.
Finché non avremo il coraggio di guardare in faccia quel nostro passato recente, ogni sforzo di normalità è destinato a rimanere vano; un popolo sano non può costruire il proprio presente sulla base di menzogne, reticenze e mezze verità. Non può costruirlo nemmeno sulla base dell’odio, dello spirito di vendetta, della crudeltà impunita, perché non riconosciuta come tale o perché giustificata in base a inumani dogmi ideologici.
Questo bisogna avere il coraggio di riconoscere: che nel 1943-45 vi fu una tremenda, spietata guerra civile, come sono crudeli e spietate tutte le guerre e specialmente le guerre civili; che Italiani presero le armi contro altri Italiani, in parte per nobili ideali, nell’uno e dall’altro campo, e in parte per cieca violenza, per inconfessabili animosità personali, talvolta per puro e semplice banditismo, anche se quasi sempre mascherato con solenni parole e grandi ideali, quali giustizia, libertà, amor di patria; che alle violenze della guerra si aggiunsero le rappresaglie e le carneficine a guerra finita, per mesi, per anni, almeno fino alle elezioni politiche del 1948; che i torturatori e i carnefici godettero troppo spesso dell’impunità; che tutto questo è stato rimosso e negato, per decenni, da una vulgata storiografica faziosa e bugiarda, da un ricatto ideologico e morale in base al quale chiedere ragione del crimine delle foibe, per esempio, veniva immediatamente guardato con sospetto e ostilità, come fosse stato parte di un disegno volto a infangare la nobiltà e la purezza della guerra di Liberazione, come allora si diceva, con la “l” maiuscola.
Per decenni ci è stato raccontato, fin da studenti sui banchi di scuola, che nel 1943-45 vi fu soltanto una guerra di liberazione contro lo straniero; che c’erano, sì, anche altri eserciti stranieri che occupavano l’Italia, la bombardavano, la straziavano: ma, quelli, a fin di bene, dunque con una enorme differenza morale rispetto ai “cattivi”, quegli altri stranieri, che erano però, guarda caso, gli alleati del giorno prima; in tutti i casi, che non si era combattuto fra Italiani, o, se pure ciò era avvenuto, si era trattato di casi piuttosto rari e isolati e, ad ogni buon conto, di casi eticamente più che giustificati, perché coloro i quali militavano a fianco dello straniero invasore non meritavano più, propriamente parlando, la qualifica di “Italiani”, ma soltanto quella di scherani e manutengoli del nemico, di spregevoli traditori della Patria.
Ci è stato anche raccontato che, nell’aprile del 1945, quel capitolo di storia si è concluso in un tripudio di bandiere rosse e di bandiere tricolori, tutte ugualmente meritorie, tutte ugualmente impegnate nell’ultimo sforzo per ridare indipendenza e dignità al Paese; che vi era stata quasi una festa generale, la festa della libertà, in cui il Tedesco invasore era stato scacciato e pochi franchi tiratori fascisti avevano pagato il fio dei loro crimini; che la grande massa del popolo, entusiasta e quasi ebbra per la riconquistata libertà, aveva partecipato a tale festa con piena adesione alla parte “giusta” e riservando tutto il suo disprezzo a quell’altra, la parte dei malvagi, che era anche, guarda caso, la parte sconfitta.
Poco si diceva del ruolo svolto dagli eserciti angloamericani: essi erano stati, sì, i “liberatori”; tuttavia, al momento della insurrezione finale, gli Italiani si erano liberati da soli e avevano riscattato, con il loro eroismo, vent’anni di asservimento ad una dittatura stupida e corrotta, tanto feroce a parole quanto si era dimostrata imbelle e velleitaria nei fatti. Certo, era una felice coincidenza che gli Alleati fossero entrati nelle città del Nord quasi contemporaneamente ai partigiani; ma questi ultimi avevano vinto la generosa gara di velocità ed erano arrivati primi, com’era giusto, per far vedere a tutto il mondo che gli Italiani sanno liberarsi da soli e ringraziano per l’aiuto ricevuto, ma non ne sopravvalutano i meriti.
Violenze ce n’erano state poche, quelle inevitabili: sì, Mussolini era stato fucilato senza alcun processo e l’oltraggio al suo cadavere e a quelli dei suoi ultimi fedelissimi non era stato una bella cosa; ma che volete fare, son cose inevitabili quando un popolo ha dovuto sopportare tanto, ha dovuto partire in silenzio sotto il tallone di ferro di una dittatura; e chi voleva ricordarsi che quella dittatura aveva goduto di un consenso quale mai aveva avuto alcun governo liberale dall’Unità in poi, compreso quello della vittoria nel 1918?
Un quadro assai rassicurante, dunque: il popolo italiano era già maturo per la democrazia, era maturato appunto durante le sofferenze della guerra e aveva compreso il valore della libertà proprio quando gemeva sotto il giogo di Mussolini; dunque, a partire dal 1945, era pronto e maturo per essere accolto, a pieno titolo, nel concerto delle nazioni democratiche e per occupare il posto che gli spettava nel mondo civile, sia pure pagando lo scotto di un trattato di pace che ne mutilava il territorio e costringeva all’esodo le popolazioni giuliane, ne spogliava l’impero coloniale, ne smembrava la marina, ne umiliava la fierezza e la dignità, fra l’altro imponendo l’impunità per coloro i quali avevano sabotato lo sforzo bellico e agito contro la patria in guerra fin dal 10 giugno del 1940. Ma insomma, che farci, c’erano dei conti in sospeso da pagare alla comunità internazionale; era il debito che andava saldato per poter ritrovare stima e simpatia nel cosiddetto “mondo libero”.
Eppure, i mitra non erano tornati in soffitta, le bombe non erano state riconsegnate nei depositi militari. Per tutto il 1945, il 1946 e il 1947 si continuò a terrorizzare, a infierire, a uccidere; centinaia di persone caddero sotto il fuoco di terroristi che si autodefinivano partigiani della libertà, di fanatici assassini che sognavano l’imminente rivoluzione proletaria e intanto spadroneggiavano e decidevano della vita e della morte di operai, contadini, professionisti, imprenditori, preti, maestre elementari, di tutte le persone che, per un motivo o per l’altro, a torto o a ragione, erano finite sulla loro lista nera, vuoi come ex fascisti, vuoi come simpatizzanti dell’estrema destra che, purtroppo, come una mala pianta, non era stata interamente sradicata alla fine della guerra.
C’è una immagine, fra le tante, fra le troppe, che non se ne vuole andare dal ricordo di quanti l’hanno vista: la fotografia di una giovane donna massacrata e gettata in un prato fangoso, nel cuore del’inverno: le braccia e le gambe divaricate, sembra in croce, povero fagotto straziato e scaricato come un sacco d’immondizia. È una certa Eva Macciacchini, uccisa dalla Volante Rossa e ritrovata a Milano Lambrate il 17 gennaio 1947. Il suo crimine: essere stata vicina alle S.A.M, aver manifestato simpatie per la destra neofascista. Nell’Italia di allora si poteva morire anche così: a due anni dal termine ufficiale della seconda guerra mondiale.
Nell’aprile e nel maggio del 1945 erano state uccise decine e decine di ausiliarie, di crocerossine, di volontarie della Repubblica Sociale; centinaia e migliaia di allievi ufficiali, di privati cittadini, perfino di partigiani non comunisti e sospettati di essere ostili all’instaurazione di un regime comunista, oppure - nelle regioni nord-orientali -, di volersi opporre all’annessione forzata di quelle zone alla Jugoslavia del maresciallo Tito.
Centinaia di persone erano state prelevate nelle loro case, a Gorizia e a Trieste, durante il periodo di occupazione jugoslava di quelle due città, e molte di esse non avevano mai più fatto ritorno; ma invano si cercherebbe, nei numerosi libri di ricordi dei protagonisti della lotta partigiana, qualche ammissione, qualche parola di verità su quelle vicende, sulla tragedia delle foibe. No, vi si parla solo di “fratellanza d’armi” fra partigiani italiani e jugoslavi, come nelle memorie del partigiano Giovanni Padoan: «Abbiamo combattuto insieme», come dire: andavano perfettamente d’accordo, il vero ed unico nemico erano i nazifascisti. E silenzio su tutto il resto, silenzio sull’eccidio della malga di Porzûs, silenzio sui massacri e sulle deportazioni del IX Korpus sloveno.
Bisognerà aspettare i libri di Marco Pirina e di Antonio Serena per alzare il velo, per contare quei morti dimenticati, per ricostruire quelle tragedie oscurate, per ridare un nome e un volto a quelle persone scomparse; libri che, sul principio, sono stati accolti con malumore, con fastidio, con aperta ostilità, perché venivano a guastare le uova nel paniere della Vulgata democratico-resistenziale, perché offuscavano la bella immagine di una guerra giusta e pura, con tutte le luci da una sola parte e tutte le ombre dell’altra, dove il bene aveva trionfato insieme alla verità e alla giustizia e il male aveva ricevuto il meritatissimo castigo.
Ora, quel che vorremmo non è di rovesciare il paradigma, non è di ribaltare il quadretto e di sostenere una verità opposta e speculare a quella fino ad ora raccontata dalla cultura ufficiale dell’Italia repubblicana. Sì, è vero: i Tedeschi commisero delle atrocità; sì, è vero, anche molti fascisti ne commisero. Anche gli Anglo-americani ne commisero, e molto più massicce (ma meno evidenti: perché un bombardamento aereo è più tecnologico e, dunque assai più “pulito” di un rastrellamento casa per casa o di una fucilazione in massa di civili, anche se fa cento o mille vittime in più di quelli); e ne commisero anche molti gruppi partigiani.
Le atrocità ci furono da entrambe le parti; le violenze, le ruberie, le ingiustizie, i ricatti, le torture, vi furono da entrambe le parti; la degradazione dell’uomo, gli stupri, il sadismo si scatenarono da una parte e dall’altra. Non si tratta, però, di questo; e nemmeno di equiparare il significato morale e politico di quelle morti e di quegli orrori. Moralmente e politicamente ciascuno è libero di dare il suo giudizio, sempre tenendo presente il quadro reale creatosi in Italia con l’8 settembre del 1943: quello d un Paese sconfitto e invaso da due opposto eserciti, e di un popolo lasciato allo sbando, senza ordini, senza direttive, da una classe dirigente fuggiasca e senza onore, che nel momento del pericolo pensò unicamente alla propria salvezza.
In quel delirio, in quella confusione, in quello sfaldamento delle strutture statali, molti agirono come agirono per un senso della patria e del dovere che poteva essere interpretato in maniere diverse e perfino opposte; e tutti coloro che agirono per motivi ideali meritano onore e rispetto, non solo perché accettarono di pagare il prezzo delle loro scelte, ma perché la loro buona fede era al di sopra di ogni meschino interesse. Altri non furono così nobili e disinteressati, e furono molti. Quanto alla maggioranza del popolo, non è vero che si schierò istintivamente con i partigiani: vedeva gli uni e gli altri come un male inevitabile, ma transitorio: pregava e sperava perché la guerra finisse quanto prima e perché se ne andassero via tutti, i rossi e i neri, gli amici e i nemici, gli occupanti e i liberatori.
Sarebbe ora che gli Italiani guardassero onestamente a quel loro passato e che si riconciliassero con i loro morti, con i morti di entrambe le parti: perché, come scriveva Cesare Pavese in una pagina memorabile, il sangue del fratello ucciso chiede ragione, chiede conto di non essere loro, i vivi, al posto dei caduti; chiede di essere placato da un risveglio della coscienza, da un soprassalto della profonda umanità di quanti sono sopravvissuti.
Dovremmo smetterla di vedere il 25 aprile come il giorno in cui si ricorda la vittoria di una parte sull’altra, ma dovremmo viverlo come il giorno in cui ci si chiede perdono a vicenda; come il giorno in cui gli Italiani si domandano perdono l’un l’altro per il sangue versato dei propri fratelli, per la mano levata contro i propri compatrioti.
Il giudizio storico, ripetiamo, è un’altra cosa: è affare della coscienza individuale; la cultura ufficiale, lo Stato, non dovrebbero mai abbracciare una verità storica che sia scritta una volta per tutte in caratteri indelebili, perché nulla, nella storia degli uomini, è oggetto di verità definitiva, tutto è soggetto a continuo e doveroso ripensamento. È tanto difficile ammettere che la storia la scrivono, sempre e comunque, i vincitori; e che non ci si può fidare ciecamente delle sue “verità”, fintanto che scaturiscono da una semplificazione e da una forzatura dei fatti, mirante a porre ogni merito da una parte della barricata, e ogni colpa e ignominia, dall’altra?
Riconciliazione, dunque; perdono reciproco: ma sulla base del franco riconoscimento che tutti hanno delle colpe da farsi perdonare e nessuno ha solo dei crediti morali da riscuotere.
Senza di questo, non saremo mai un popolo “normale”; e ogni discorso sulla libertà e sulla democrazia non sarà che una trista menzogna, tanto più deplorevole in quanto cosciente d’esser tale.

http://www.liberaopinione.net/wp/?p=5968

mercoledì 10 ottobre 2012

BANKSTERS – La nascita della Banca d’Inghilterra e la moneta creata dal nulla Le origini del debito pubblico



di: Mario Consoli

Seguendo le notizie della crisi finanziaria globale su giornali e telegiornali, sembrerebbe emergere il volto del responsabile di ogni male, del nemico principale da sconfiggere: il debito pubblico.
Si dice che sia il risultato di una spesa statale scriteriata e clientelare, ed in parte è sicuramente vero. Si dice che sia stato creato da una politica spendacciona e ladra oltre ogni ritegno, e anche questo è vero.
Si dice poi che sia proprio lui, il debito pubblico, il responsabile della instabilità della moneta, della crisi economica e del rallentamento dello sviluppo produttivo. Ma su ciò qualche dubbio sorge.
Più si analizza la situazione infatti, cercando di liberarsi da pregiudizi, paraocchi e dalle suggestioni create dai mass media, più la questione del debito pubblico non appare così semplice e sorgono spontanee domande alle quali è legittimo cercare risposte.
Come nasce il debito pubblico? Quali sono e come funzionano i meccanismi che lo fanno diventare un fenomeno cronico? Chi è oggi il proprietario del debito pubblico delle nazioni in crisi? Che rapporto intercorre tra debito pubblico e libertà dei popoli?
Sarà bene cominciare dall’inizio.
Louis Even, il propugnatore del Credito Sociale, scrisse sull’argomento un racconto illuminante: cinque naufraghi riuscirono a raggiungere un’isola deserta. Si trattava di un muratore, un contadino, un allevatore, un esperto in agraria e un ingegnere minerario.
Secondo le rispettive competenze, i cinque si dettero da fare per realizzare una comunità funzionale e soddisfacente. Il muratore si mise a costruire capanne; l’allevatore cominciò a catturare e porre in recinti gli animali utili per ottenere latte, uova e carne; l’agronomo e il contadino si dedicarono ai frutti della terra; l’ingegnere procurò i metalli per forgiare utensili, pentolame, chiodi e quant’altro era necessario.
La vita procedeva serena; un solo inconveniente creava qualche problema di convivenza: lo scambio dei beni, frutto delle rispettive attività, non poteva avvenire in uno stesso momento e la mancanza di appropriati strumenti economici imponeva una serie di riunioni con discussioni piuttosto complesse.
Successivamente arrivò sull’isola il sopravvissuto di un altro naufragio. Sbarcò da una scialuppa malridotta con la quale aveva portato poche cose frettolosamente salvate, tra cui una pressa, una cassa piena di carta e un barile sigillato. Il nuovo arrivato fu ben accolto dai cinque, contenti di veder la propria comunità crescere, e la loro gioia aumentò quando seppero che si trattava di un banchiere. Proprio quello che mancava: una persona capace di organizzare l’economia dell’isola.
Il banchiere, preso atto delle attività dei cinque, disse: «Per far funzionare bene le cose vi manca solo il denaro. È con il denaro che il contadino può comprare oggi ciò di cui ha bisogno senza dover aspettare la stagione del raccolto, e così gli altri il momento in cui avranno finito di costruire una capanna o di fabbricare un utensile. Io posso facilmente risolvere i vostri problemi. Con la carta e la pressa posso stampare 1000 dollari. Il barile che ho con me è pieno d’oro; lo sotterrerò in un posto segreto e lo lascerò in garanzia della copertura del denaro coniato. Vi presterò duecento dollari a testa a un interesse bassissimo: il 2% annuo. Io sarò garantito dai frutti delle vostre attività, dalle vostre capanne e dai vostri attrezzi».
Tutti si sentirono soddisfatti perché, risolta la questione della liquidità commerciale, ognuno poté tornare alle proprie attività senza avere più problemi. Ma la serenità durò fino a quando, passato un certo tempo, cominciarono a fare dei conti e scoprirono una situazione assai spiacevole. L’ammontare del loro debito – capitale più gli interessi maturati – era superiore all’intero importo del circolante. Arrivò quindi il momento in cui fu indispensabile, per pagare gli interessi, mantenendo inalterata la liquidità necessaria all’economia dell’isola, chiedere altri prestiti, che il banchiere fu ben contento di concedere.
In quell’isola era così nato il debito pubblico. Un debito destinato ad aumentare anno dopo anno.
Inevitabilmente il banchiere, a forza di conteggiare interessi, e gli interessi sugli interessi, stava diventando il padrone di tutti i beni presenti sull’isola e manifestava il proprio potere imponendo ai cinque quello che a parer suo dovevano o non dovevano fare. I cinque allora compresero quale errore fosse stato accettare quei 1000 dollari e che, se il denaro se lo fossero stampato loro, senza l’intromissione di quel banchiere venuto dal mare, non avrebbero avuto i problemi che ora li affliggevano.
Il denaro rappresentava il valore dei beni presenti sull’isola e quindi, essendo loro i proprietari dei beni, avrebbero dovuto essere anche i proprietari del denaro sul quale nessuno avrebbe potuto pretendere il pagamento di interessi. I cinque allora, compresa la truffa, si ribellarono, rimisero il banchiere sulla barca con la quale era arrivato, e lo ricacciarono violentemente in mare.
A completare la vicenda, Even racconta che, quando i cinque andarono a dissotterrare il barile che doveva rappresentare la copertura aurea della moneta stampata, scoprirono che era pieno di sassi.
Nella realtà storica le cose sono andate pressappoco nello stesso modo, a parte la risolutiva conclusione della vicenda, la ricacciata in mare del banchiere e della sua barca.
Nel 1694, in Inghilterra, succeduto in modo turbolento a Giacomo II Stuart, regnava Guglielmo III d’Orange, che aveva vissuto in Olanda in un ambiente di mercanti e banchieri ed era stato educato secondo i valori calvinisti. Guglielmo era impegnato in un grande sforzo bellico contro la Francia di Luigi XIV, il Re Sole. La flotta era stata raddoppiata e l’esercito rifatto ex novo. Le spese militari superavano il 74% dell’intera spesa pubblica e la necessità di reperire nuovi fondi aumentava a vista d’occhio.
L’imposizione fiscale era altissima e Guglielmo temeva, esigendo nuove tasse, di perdere il consenso della nobiltà e della borghesia. In quegli anni l’economista francese Jean-Baptiste Colbert scriveva: «La tassazione è l’arte di spennare l’oca in modo tale da avere il massimo di piume con il minimo possibile di starnazzi».
Si fece quindi allettare dalle proposte di un banchiere scozzese, William Paterson – capofila di una cordata di banchieri e appoggiato dal tesoriere dello Scacchiere, Lord Montague – che gli offrì un prestito a interesse di un milione e 200 mila sterline. Ciò significava spostare il problema. Disporre del denaro subito e rimandare a tempi successivi le conseguenze negative per i cittadini contribuenti.
Le condizioni poste furono queste: oltre ad incassare gli interessi dell’8%, Paterson doveva essere autorizzato ad emettere banconote per un importo pari al prestito concesso al governo. Scrisse il banchiere: «Se i proprietari della banca potranno far circolare la somma di un milione e duecentomila sterline senza avere in giacenza più di duecentomila o trecentomila sterline, questa banca immetterà nella Nazione nuova moneta per un importo di novecentomila o un milione di sterline». Poi si seppe che, nella realtà, la quantità di sterline emesse e la copertura offerta dalla nascente banca in questa operazione erano state differenti: nel 1696, a fronte di 1.750.000 sterline stampate, esisteva una riserva di cassa di sole 36.000 sterline d’oro.
Il parlamento, sotto la pressione del re, autorizzò l’operazione e Paterson fondò, assieme ai suoi soci, la Banca d’Inghilterra che, nonostante il nome che farebbe pensare ad una istituzione dello Stato, era una ditta assolutamente privata, allora con soli 19 dipendenti.
William Paterson sintetizzò il senso dell’operazione con una frase estremamente chiara: «La banca trae beneficio dall’interesse che pretende su tutta la moneta che crea dal nulla».
Quell’emissione di sterline fu solo la prima di una lunghissima serie. La convertibilità in oro di quella cartamoneta fu da subito un fatto formale, poiché il reale rapporto tra quantità di denaro stampata e disponibilità aurea presente nei depositi della banca era tenuto assolutamente segreto, sia all’esterno che all’interno dell’istituto; era informazione riservata esclusivamente al Governatore.
È poi il caso di ricordare che la convertibilità in oro della sterlina fu sospesa nel 1914, molto prima del dollaro (15 agosto 1971) e di tutte le altre valute.
Fino al 1694, sia in Inghilterra che altrove, l’unica moneta ufficialmente circolante era stata quella coniata dallo Stato. Da allora, invece, la moda di delegare l’emissione del denaro a banche private si è diffusa ovunque. E gli Stati pagano a questi soggetti gli interessi per il denaro stampato.
Sul modello della banca di Paterson furono istituite: nel 1695 la Bank of Scotland, nel 1765 la Königliche Giro und Lehnbanco di Berlino, nel 1782 il Banco di San Carlo di Madrid, nel 1800 la Banca di Francia.
Un tempo il potere di coniare moneta era riservato alla massima autorità: re, duca o principe. Chi possedeva oro o argento poteva portarlo alla zecca dello Stato che provvedeva a trasformare il metallo prezioso in monete. Una piccola parte di questo metallo veniva trattenuta come compenso per l’operazione di conio. Questo compenso si chiamava signoraggio ed era un privilegio gelosamente custodito e difeso dall’autorità, perché rappresentava anche un’importante fonte di entrate. Oltre al compenso per il conio, che alla bisogna poteva essere anche gonfiato, erano evidenti i numerosi vantaggi derivanti dal controllo delle zecche. Non fu raro che la padronanza dell’emissione della moneta garantisse allo Stato consistenti entrate finanziarie, apparentemente senza pesare sui contribuenti. Il termine signoraggio si è conservato, ed ancor oggi indica tutti i benefici che sono riservati a chi emette moneta, che però non è più il signore – lo Stato – ma le banche private il cui mestiere non è perseguire gli interessi della Nazione, bensì i propri utili e farsi complici dei giochi degli speculatori.
Dunque, non si comprende in virtù di quale criterio di legittimazione, i proprietari del denaro smettono di essere il re, o lo Stato, o il popolo, e lo diventano i banchieri.
Nasce così il moderno debito pubblico, il debito pubblico permanente.
Dalla data della fondazione della banca di Paterson al 1788 – meno di un secolo – il debito pubblico dell’Inghilterra passa da 13 milioni di sterline a 245 milioni, con un incremento del 1800%.
Non è che una volta il debito pubblico non esistesse: i monarchi nella storia, soprattutto per finanziare guerre, hanno sempre fatto ricorso a ingenti prestiti. Ma generalmente erano vicende che avevano un inizio e una fine.
A guerra vinta il denaro veniva restituito e gli interessi pagati – anche quando raggiungevano le quote usurarie del 30-40% – o, a guerra persa, veniva destituito il re o il governo e il prestito spesso andava a farsi benedire. Generalmente la questione veniva trattata come un affare andato male o un investimento sbagliato. Sono rimasti famosi i casi dei Bardi e dei Peruzzi, finiti in rovina per l’insolvenza di re Edoardo III d’Inghilterra, e della filiale di Bruges dei Medici, messa in liquidazione dopo il pessimo esito del finanziamento concesso al duca di Borgogna Carlo il Temerario. I creditori di Filippo IV di Francia – il Bello – oltre a non riscuotere il dovuto, furono cacciati dal regno.
Più che di debito pubblico in effetti si trattava di vicende legate a case regnanti e a singoli eventi storici.
Dopo il 1694, un po’ come abbiamo visto nel racconto dei naufraghi, quella del debito pubblico diviene invece una malattia cronica.
In queste settimane si fa un gran parlare di disavanzo e avanzo primario. Si tratta della differenza tra le entrate e le spese pubbliche al netto degli interessi. Appare evidente che ogni situazione, anche la più complessa e apparentemente compromessa, con una politica oculata e una sufficiente dose di buona volontà, potrebbe essere sistemata. Sono gli interessi che fanno la differenza e condannano alla cronicità e al peggioramento i debiti pubblici.
Sotto gli occhi abbiamo il caso della Grecia. Indubbimente una congiuntura molto pesante; per questo motivo le agenzie di rating declassano la solvibilità di quel debito e gli «aiuti» vengono offerti a interessi sempre più alti. Può, a questo punto, una nazione, ragionevolmente, riuscire a sanare la propria situazione economica e contemporaneamente pagare interessi usurari in continua crescita (nel caso specifico per ora hanno superato il 19%), per giunta maggiorati in funzione dell’anatocismo (gli interessi sugli interessi)? Si tratta di una semplice follia di carattere economico o, più propriamente, di un disegno mal celato di dominio planetario attuato con cinismo sulla pelle dei popoli?
Può una nazione rimanere libera e sovrana vivendo una tale realtà se non ricorre alla rivolta e al rigetto della carità pelosa degli usurai?
* * *
Le banche di emissione, dunque, dopo il 1694 diventano quasi tutte private. Nel 1937, sotto Stalin, divenne privata persino quella dell’Unione Sovietica: il deus ex machina dell’operazione fu il plurimiliardario petroliere ebreo-americano Armand Hammer.
Il Federal Reserve Act – l’atto istitutivo della Banca Centrale americana, la più grande banca privata del mondo – è del 23 dicembre 1913.
Si trattava di organizzare la gran massa di «promesse di pagamento» emesse in ogni angolo degli Stati Uniti. Si respirava aria di guerra. In Europa stava per scoppiare il primo conflitto mondiale e per gli americani l’occasione si presentava ghiottissima. L’industria bellica poteva moltiplicare la produzione e concludere affari d’oro. Persino l’Inghilterra, per la prima volta nella storia, aveva varcato l’oceano per chiedere denari in prestito all’America.
Con l’istituzione della Riserva Federale si reperirono soldi direttamente presso i contribuenti statunitensi. Scrive l’economista Gertrude M. Coogan: «L’America fu sottoposta alla prima sottoscrizione per la ”Libertà” – Liberty Loans –. Il modo in cui avvenne tale finanziamento era estremamente semplice, grazie all’esistenza di questo grande sistema bancario centralizzato. Le banche delle piccole comunità anticiparono alla Banca della Riserva Centrale il 5% del totale del prestito che era stato proposto. Il governo stampò i titoli e li inviò alle banche delle comunità. Ricevuti i titoli, le banche delle comunità ne accreditarono il valore totale sul conto di deposito del Governo degli Stati Uniti. Era semplicemente un metodo legalizzato col quale le banche creavano, mediante artifici contabili, il 95% dei fondi anticipati al Governo degli Stati Uniti. Il Governo degli Stati Uniti, ovviamente, si rivelò magnanimo e fu disposto a pagare gli interessi a queste banche in cambio del loro grande privilegio di creare moneta da prestare al Governo. In effetti è proprio un Governo magnanimo quello che concede a pochi individui il privilegio di creare moneta per esso e consente poi che i suoi cari cittadini, avvezzi a lavorare duramente, comprino quella moneta artificiosa e paghino anche successivamente un tributo sotto forma di interesse».
Charles Lindbergh – non a caso avversato e vilipeso dall’intero establishment finanziario e politico rooseveltiano – definì il Federal Reserve Act «il peggior crimine legislativo di tutti i tempi».
Anche la Federal Reserve fu clonazione dell’Istituto di emissione di Londra, come la gran parte delle Banche Centrali del mondo. Eccezione alla tendenza generale, tra le due guerre mondiali, fu la Germania, che nazionalizzò la sua banca di emissione. L’art. 2 della legge sulla Reichsbank recitava: «I compiti della Banca Tedesca del Reich derivano dalla sua posizione di banca d’emissione del Reich. Essa sola ha il diritto di emettere banconote. Deve inoltre regolamentare le transazioni e le operazioni finanziarie in Germania e all’estero. Deve anche provvedere alla utilizzazione dei mezzi economici disponibili dell’economia tedesca nel modo più appropriato per l’interesse collettivo e politico-economico».
L’Italia si situò in una posizione intermedia che fu frutto di una serie di compromessi. Nel 1874 le banche autorizzate a emettere moneta erano sei: la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale della Toscana, la Banca Toscana di Credito, la Banca Romana, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.
Poi, con una legge del 1893, promulgata a seguito del fallimento della Banca Romana, i 4 istituti dell’Italia centro-settentrionale vennero fusi, dando vita alla Banca d’Italia, e rimasero ancora attivi per l’emissione della lira anche il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Solo con la riforma del 1926 la Banca d’Italia resta l’unica con diritto di battere moneta.
Diverse correnti del fascismo avrebbero voluto la nazionalizzazione della Banca Centrale, ma Mussolini fu frenato dalle pressioni che arrivavano dall’estero, particolarmente dalla Federal Reserve e dalla Banca d’Inghilterra, che minacciavano di sabotare la stabilità della moneta italiana.
Le opinioni di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano particolarmente peso perché proprio con queste due nazioni il Governo italiano si era indebitato negli anni della Prima Guerra Mondiale, per finanziare i propri impegni militari. A causa di ciò il debito pubblico italiano si era gonfiato a dismisura fino a raggiungere il 150% del PIL. Pesante eredità che il fascismo, arrivato al potere, si trovò a gestire.
Tra il 1922 e il 1926 il governo Mussolini – ministro di Finanze e Tesoro Alberto De Stefani – si fece promotore di una serie di operazioni decise e coraggiose, accompagnate da una politica economica internazionale diplomatica e accomodante.
I risultati furono numerosi e importanti: in quattro anni il debito pubblico passò dal 150% al 50% del PIL; fu azzerato il debito con l’estero; il 2 giugno 1925 De Stefani annunciò il raggiungimento del pareggio di bilancio; la spesa pubblica passò dal 35 al 13% del PIL; i disoccupati diminuirono da 600.000 a 100.000; l’inflazione fu bloccata da una serie di iniziative tra le quali si ricorda – la più spettacolare – l’incenerimento di sacchi pieni di banconote; furono distrutti oltre 320 milioni di lire. L’immagine di De Stefani che sovraintende l’eliminazione di ingenti quantitativi di denaro marca la differenza tra un mondo nel quale il potere politico aveva la forza di governare l’economia e l’odierno, squallido panorama nel quale le decisioni vengono assunte dai Signori del denaro e ai politici è riservato il ruolo di servizievoli camerieri.
Nell’agosto del 1926 Mussolini, risanata l’economia nazionale, poté incamminarsi verso la conquista di «quota novanta» – quotazione di novanta lire per una sterlina inglese, facendo rientrare la nostra moneta nel gold exchange standard – imponendo un nuovo vigore al ruolo internazionale dell’economia italiana e della lira.
Il 18 agosto, a Pesaro, in un discorso improvvisato rimasto famoso, Mussolini, dopo aver lodato le qualità e le caratteristiche della popolazione marchigiana, affermò: «Noi condurremo con la più strenua decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza a tutto il mondo civile dico che difenderò la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue. Non infliggerò mai a questo popolo meraviglioso d’Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della lira. Il regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai tentativi di jugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a stroncarle quando siano individuate all’interno».
L’obiettivo «quota novanta» fu raggiunto nel dicembre 1927.
Questa operatività la si poteva ottenere solo disponendo direttamente della sovranità economica e monetaria. Mussolini non volle nazionalizzare la Banca Centrale, e con ciò andare in urto con i due massimi creditori internazionali dell’Italia ma, con la riforma del 1926, escogitò un sistema di controllo – indiretto ma efficace – dell’Istituto di emissione della lira.
La Banca d’Italia rimase un Istituto indipendente – prima una Società autonoma, poi una Società per Azioni – la cui proprietà però fu affidata a un consorzio di Enti statali e di Banche, con preponderanza delle Casse di Risparmio e delle grandi Banche di interesse nazionale che qualche anno dopo sarebbero diventate, con l’IRI, proprietà dello Stato.
La legge prevedeva che le variazioni del tasso di sconto dovevano essere concordate con il ministero delle Finanze e autorizzate dal governo, e che la Banca d’Italia fosse obbligata ad acquistare i Titoli di Stato emessi dal governo.
Nel dopoguerra la situazione non variò sostanzialmente, fino agli anni Ottanta. Nel 1981 – era governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e ministro del Tesoro Beniamino Andreatta – fu sancito il diritto della Banca Centrale a non sottoscrivere – sia parzialmente che in toto – i Titoli di Stato.
La Federal Reserve aveva ottenuto nei confronti del Governo USA un analogo provvedimento già nel 1951. Su preciso ordine delle tre potenze occidentali occupanti la «zona Ovest», la Banca di emissione tedesca rifondata nel dopoguerra – la Deutsche Bundesbank – fu costituita libera da ogni vincolo verso i Titoli di Stato.
Nel 1992 l’ex governatore Guido Carli, nelle vesti di ministro del Tesoro, abolì il controllo del governo sul tasso di sconto, che rimase appannaggio esclusivo della Banca d’Italia. Il definitivo divorzio tra Stato e Istituto di emissione fu decretato poi in quegli anni dalle privatizzazioni gestite da Romano Prodi e Mario Draghi. La stragrande maggioranza delle azioni di Bankitalia infatti, fino allora nelle mani di Enti statali o di Banche o Assicurazioni dello Stato, grazie alle privatizzazioni, passarono a soggetti assolutamente privati.
La maggioranza delle azioni è oggi in mano a Intesa San Paolo e Unicredit. Gli unici enti di Stato rimasti dentro Bankitalia sono l’INPS, con uno striminzito 5% di azioni e l’INAIL con un simbolico 0,6%.
A completare l’opera, con le grandi fusioni bancarie, cessarono di esistere molte Casse di Risparmio – le più importanti – che, anch’esse comproprietarie della Banca d’Italia, erano fino a quel momento vincolate a comportamenti estranei alla disinvolta speculazione finanziaria e a conservare i propri radicamenti territoriali.
Il 28 dicembre 2005 si è verificato un fatto in controtendenza. Nell’ambito della cosiddetta Legge a tutela del Risparmio, numero 262, al punto 10 dell’articolo 19, si stabilisce che entro tre anni, a decorrere dal 12 gennaio 2006, dovevano essere trasferite a enti statali tutte le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti privati.
Ma il gennaio 2009 è passato da un pezzo e nulla di ciò è avvenuto. Illegalmente, dunque, i proprietari di Bankitalia sono ancora le banche private.
Perché nessuno ne ha parlato? Perché nessuno protesta, nemmeno Giulio Tremonti che quella legge volle e firmò?
C’è qualcuno, in questi mesi di grandi manovre fiscali e di tagli della spesa pubblica, che ha avanzato la proposta di vendere l’oro della Banca d’Italia – sono 2.500 tonnellate – per abbassare il livello del debito pubblico. Ma, semplicemente, non lo si può fare. Perché quell’oro, che è nei bilanci delle banche, non è del popolo italiano: non è nell’attivo dello Stato.
Recentemente hanno destato stupore le controverse vicende che hanno caratterizzato la nomina del nuovo governatore della Banca d’Italia. Alla candidatura di Fabrizio Saccomanni, direttore generale dell’Istituto e delfino di Mario Draghi, si era opposta quella di Vittorio Grilli, direttore generale del ministero del Tesoro, caldeggiata da Giulio Tremonti e Umberto Bossi. Dopo settimane di incertezza la scelta ha finito per premiare un terzo nome, quello di Ignazio Visco.
Per comprendere ciò che è realmente accaduto, al di là delle laconiche, evasive cronache giornalistiche, occorre fare un passo indietro e mettere in primo piano l’Istituto di cui nessuno in questa occasione ha mai parlato: la BRI di Basilea, la Banca dei Regolamenti Internazionali.
La BRI fu istituita dopo la Prima Guerra Mondiale per organizzare i trasferimenti valutari relativi al piano di riparazioni imposto alla Germania dopo il Trattato di Versailles. Esaurito il suo ruolo originario, la BRI divenne l’Istituto di coordinamento di tutte le Banche centrali del mondo; la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra hanno in mano il 40% della sua proprietà, una quota sufficiente a garantirne l’assoluto controllo.
Dunque, Saccomanni è uomo della BRI – membro del Consiglio di amministrazione – mentre Grilli è un tecnico dello Stato italiano, e per questo sponsorizzato da alcuni ministri del governo. Alla fine, con «soddisfazione di tutti», seguendo il vecchio adagio «tra i due litiganti il terzo gode», è stato nominato Visco. Un uomo nuovo, un outsider? No, nessuno lo ha rimarcato, ma si tratta di un altro uomo targato BRI; anche lui fa parte di quel Consiglio di amministrazione.
Dunque, oplà! Due piroette e tre salti mortali e tutto è rimasto come prima: a capo della Banca d’Italia c’è ancora un esponente del sistema bancario internazionale.
* * *
È quindi ineluttabile che il monopolio dell’emissione della moneta rimanga in mani private? Nessuno si è mai ribellato tentando strade diverse?
Le cose non stanno proprio così.
Abramo Lincoln, per quadrare il bilancio degli Stati Uniti, nel 1862, aveva bisogno di 449 milioni di dollari. Le banche inglesi fecero conoscere la loro disponibilità ad erogare un prestito al 30% di interesse.
Lincoln sdegnosamente rifiutò ed affermò che «ogni governo può creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare le proprie necessità di spesa ed il potere d’acquisto dei consumatori». Ed ancora: «La moneta è la creatura della legge e l’emissione originaria della moneta deve essere mantenuta quale esclusivo monopolio del governo nazionale».
Con una legge del 25 febbraio 1862 – Legal Tender Act – si dette il via all’emissione di dollari di Stato – che per il colore dell’inchiostro usato furono chiamati greenbacks, «biglietti verdi» – sui quali il governo non avrebbe dovuto pagare alcun interesse.
D’altronde lo scontro tra la classe dirigente statunitense e le banche private non era una novità fin dall’epoca coloniale. Nel 1757 Benjamin Franklin fu chiamato, in qualità di rappresentante delle colonie, a relazionare al parlamento britannico e, per spiegare la prosperità dei territori amministrati in America, affermò: «Nella colonia emettiamo la nostra moneta, chiamata Colonial Script [biglietto coloniale]. La emettiamo in proporzione alla domanda commerciale ed industriale per facilitare il passaggio delle merci dal produttore al consumatore. In questo modo, creando noi stessi la moneta, ne controlliamo il potere d’acquisto e non dobbiamo pagare interessi a nessuno».
Tra i presidenti statunitensi che precedettero Lincoln si schierarono contro i tentativi dei banchieri di controllare la moneta USA Thomas Jefferson, James Madison e Andrew Jackson. È nota l’affermazione di Jefferson: «Io credo che le istituzioni bancarie siano più pericolose per la nostra libertà di quanto non lo siano gli eserciti nemici. Esse hanno già organizzato una potente lobbie che ha attaccato il governo con arroganza. Il potere di emissione deve essere tolto alle banche e restituito al popolo, al quale legittimamente appartiene».
Tornando a Lincoln, i banchieri statunitensi e quelli inglesi, peraltro tra loro strettamente collegati, non digerirono facilmente la decisione di stampare dollari di Stato. Il Times di Londra in quella circostanza scrisse: «Se la perversa politica finanziaria adottata dalla repubblica dell’America settentrionale nel corso dell’ultima guerra combattutasi in quel paese dovesse piantar radici ancor più solide, allora quel Governo provvederà alla fornitura della propria moneta senza alcuna spesa. Esso salderà i suoi debiti e se ne libererà. Avrà tutta la moneta necessaria a svolgere le proprie attività commerciali. Diventerà prospero al di là di qualsiasi precedente nella storia dei Governi civili del mondo. I cervelli e le risorse di tutti i paesi confluiranno nell’America settentrionale. Quel Governo deve essere distrutto o esso distruggerà ogni monarchia del globo».
Nel 1864 Lincoln si ricandidò alla presidenza degli Stati Uniti e durante la campagna elettorale dichiarò, ripetutamente, la sua intenzione di continuare ad emettere i dollari di Stato, ma il 14 aprile 1865 fu ucciso. Qualche storico è arrivato a insinuare che dietro John Booth, l’assassino di Lincoln, ci fossero addirittura dei legami riconducibili a casa Rothschild.
Per l’occasione, il capo del governo prussiano, Otto von Bismarck, dichiarò: «La morte di Lincoln fu un disastro per la Cristianità. Non v’era negli Stati Uniti un uomo che fosse abbastanza grande da calzare i suoi stivali e i banchieri hanno rinnovato i loro sforzi per impossessarsi delle ricchezze del mondo. Temo che saranno proprio loro, con la loro astuzia e con i loro espedienti tortuosi, ad assumere pieno controllo delle abbondanti ricchezze dell’America e a servirsene sistematicamente per corrompere la moderna civiltà. Essi non esiteranno a far sprofondare l’intera Cristianità nelle guerre e nel caos, affinché la Terra diventi loro proprietà».
Sta di fatto che con quell’assassinio l’esperimento dei dollari di Stato si concluse. Ciò nonostante è stato calcolato che l’emissione del 1862 fece risparmiare nel corso degli anni, al governo degli Stati Uniti, oltre 11 miliardi di dollari di interessi.
Tragica analogia con questi avvenimenti la troviamo con John Fitzgerald Kennedy.
Negli anni Sessanta la consistenza del debito pubblico statunitense aveva raggiunto dimensioni preoccupanti e il giovane presidente, succeduto a Eisenhower, riconsiderò il meccanismo che determinava l’emissione dei dollari.
Il marchingegno della Federal Reserve – così come quello delle maggiori banche centrali del mondo – è, come abbiamo visto, quello di stampare moneta che, gravata da interessi, viene prestata al governo il quale si rifà sui cittadini, incassando le tasse. È a tal proposito interessante ricordare che il XVI emendamento della Costituzione degli USA è stato promulgato nel 1913, contemporaneamente al Federal Reserve Act. Si tratta dell’emendamento che attribuisce al Congresso «la facoltà di imporre e riscuotere tasse sui redditi derivanti da qualunque fonte senza ripartirle tra i vari Stati e senza dover tenere conto di alcun censimento»; configura cioè il collegamento indispensabile per far confluire direttamente, dalle tasche dei contribuenti statunitensi alle casse della Federal Reserve, i denari necessari al pagamento degli interessi sull’emissione dei dollari.
Kennedy riteneva che il debito pubblico poteva essere ridotto semplicemente smettendo di pagare gli interessi sull’emissione dei dollari e, il 4 giugno 1963, appellandosi all’articolo I, sezione 8, parte 5 della Costituzione che attribuisce al governo il potere di «battere moneta, stabilire il suo valore e quello delle monete straniere», firmò l’ordine esecutivo presidenziale numero 11.110 con il quale disponeva l’emissione di una prima tranche di dollari di Stato – stampati cioè dal ministero del Tesoro e non dalla Federal Reserve – per 4 miliardi e mezzo in tagli da due e da cinque. Erano dollari quasi identici a quelli già in circolazione, ad eccezione della scritta in alto che, invece di «Federal Reserve Note», era «United States Note», e del colore – rosso anziché verde – con il quale era stampato il marchio e il numero di serie.
Dopo cinque mesi, il 22 novembre 1963, Kennedy fu ucciso a Dallas.
C’è una relazione tra questo assassinio e l’ordine esecutivo numero 11.110?
Si tratta di uno di quegli avvenimenti storici attorno ai quali è stata diffusa una nebbia così fitta da ritenere che una risposta certa non la si potrà mai formulare, ma molti storici e giornalisti che hanno approfondito l’argomento sono propensi a individuare, come probabili mandanti, gli ambienti dell’Alta Finanza internazionale.
Certo è che da allora nessun presidente statunitense ha osato parlare più di dollari di Stato sui quali non pagare interessi.
Ma i biglietti di Stato non sono la moneta dei marziani. Possono rappresentare una soluzione assai agevole, logica, probabilmente anche decisiva. Non sono cose d’altri mondi. Perché oggi, nel bel mezzo di una crisi galoppante, tra una manovra e l’altra, nessuno ne parla? Forse è vietato? E da chi?
Eppure anche in Italia si è spesso fatto ricorso a provvedimenti del genere. Il governo Minghetti fece stampare biglietti di Stato nel 1874, De Pretis nel 1882 e nel 1883, Giolitti nel 1893 e nel 1904, Zanardelli nel 1902, Mussolini ne emise due volte prima della riforma della Banca Centrale, nel 1923 e nel 1925, altre quattro volte in seguito, senza contare il periodo della Repubblica Sociale.
Persino De Gasperi emise biglietti di Stato da cinquanta e cento lire nel 1951. L’ultimo a farlo fu Aldo Moro, due volte, nel 1966 e nel 1975.
Vi ricordate i biglietti da 500 lire? Erano biglietti di Stato, come i dollari di Lincoln e di Kennedy, biglietti per i quali nemmeno una lira di interessi è stata mai pagata dallo Stato, quindi dai contribuenti. Biglietti sui quali era stampato «Repubblica Italiana» e non «Banca d’Italia».
Anche le monete metalliche, ancora oggi, sono coniate dallo Stato e non costano interessi. Infatti, mentre gli euro in cartamoneta sono identici in tutte le nazioni europee, le monete hanno in comune una sola facciata, l’immagine del retro è differenziata da Stato a Stato. I denari cartacei sono stampati dalla Banca Centrale Europea, che è banca privata in quanto proprietà delle Banche Centrali europee, le cui azioni – come abbiamo visto nel dettaglio per ciò che riguarda la Banca d’Italia – sono in mano alle banche private. Le monete sono prodotte invece nelle zecche dei singoli Stati, ma il loro valore complessivo, rispetto al totale della moneta cartacea, è così infimo da rendere questo residuo di sovranità monetaria unicamente simbolico.
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I soldi furono inventati per rendere più agevole il funzionamento dell’economia e risolvere tutti quegli inconvenienti che nelle società primitive erano determinati dal baratto. Uno strumento dunque, non un bene in sé. È opportuno tenere bene in mente questo concetto in questi tempi nei quali, da decenni, il denaro è stato posto addirittura a ricoprire il ruolo del fine da perseguire, del metro di valutazione di ogni cosa e di ogni fatto; a rappresentare il valore dominante.
Correttamente osserva l’economista Bruno Amoroso: «La moneta, da facilitatore neutro dello scambio dei beni e veicolo di scambio, si camuffa essa stessa in merce, con l’obiettivo unico dell’esproprio del lavoro, dei beni e dei risparmi degli altri a fini di arricchimento».
Gli antropologi, studiando le società primitive, hanno rilevato come la prima espressione di scambio di beni si fosse manifestata, soprattutto all’interno del gruppo, attraverso il «dono»; un comportamento che veniva spesso rivestito di ritualità anche religiose, densa di significati. Oggetto del dono era sovente il superfluo, ma anche e soprattutto il prodotto dell’attività individuale.
Attorno a queste consuetudini si è sviluppata una serie di relazioni interpersonali. Il dono implicava una reciprocità che ha preparato il sorgere di una vera e propria comunità economica basata su uno scambio che, col passare del tempo, veniva ad essere regolato da un articolato sistema di sempre più precise norme.
Il ruolo del dono, pur mutando forma e nome, è rimasto presente nelle società fino ai nostri giorni. L’economista Geminello Alvi, nella sua recente opera Il capitalismo, afferma: «Non v’è soluzione o rimedio al capitalismo senza il riconoscimento del dono come un atto economico [...] L’atto del dono permane costante archetipo dell’economia, riordino di essa, in armonia cogli altri campi della vita e suo risanamento».
Fin dalle prime collettività primitive, l’oggetto dell’economia è dunque sempre stato il bene o il servizio – l’attività umana rappresenta anch’essa un bene – anche quando l’ingrandirsi della società e il complicarsi delle tipologie di scambio hanno imposto l’utilizzo di strumenti di intermediazione commerciale.
Il denaro ha poi assunto mille forme, adattandosi ai tempi e alle esigenze dei popoli. Come ausilio negli scambi e nei pagamenti furono utilizzate le pecore (da cui il termine latino pecunia) e il sale (da cui la parola salario). In Inghilterra, attorno al 1100, furono inventati i tallies: bastoncini di legno spessi due centimetri e mezzo. Vi si incideva, tramite apposite tacche, il valore che rappresentavano; poi venivano spezzati longitudinalmente in modo da conservare, in ognuna delle due parti, traccia delle iscrizioni. Una sezione veniva consegnata in pagamento, l’altra veniva conservata nel Tesoro dello Stato, per poterne, in qualsiasi momento, affiancandoli, controllarne la validità. Il termine tallies deriva dal verbo inglese to tally, che significa coincidere.
Si trattava di un sistema macchinoso e scomodo – erano bacchette lunghe dai 60 ai 120 centimetri – ma ciò nonostante fu utilizzato per più di sette secoli: i tailles furono aboliti, con una legge del Parlamento, solo nel 1783. La moneta che venne poi, la sterlina, emessa dalla privata Banca d’Inghilterra, essendo gravata da interessi, indusse diversi economisti a rimpiangere le vecchie e disagevoli barre di legno, riconosciute «moneta sana e legittimamente emessa dallo Stato».
Ma ciò che circolò maggiormente, per praticità e diffusione, negli ultimi due millenni sono state le monete: coniate in oro, come il romano solidus, il bizantino bisante e l’arabo dinar, o in argento come il persiano dirham e il denarius. Quest’ultimo fu emesso – con un nome che volutamente si ricollegava con la moneta dell’Impero romano – da Carlo Magno e fu il risultato di una riforma che introdusse un sistema di conto che resistette per oltre un millennio. In Europa – ad eccezione della Spagna che aveva adottato un altro sistema, di origine araba – fino alla Rivoluzione francese; in Inghilterra addirittura fino al 1971. L’unità di misura era la lira (o libbra, a indicarne anche il peso), che si divideva in 20 soldi; il valore di ogni soldo era di 12 denari, piccole monete di circa due grammi d’argento.
L’invenzione della cartamoneta è poi un fatto molto recente, e l’attuale introduzione del denaro virtuale e delle carte di credito, già ne sta prefigurando l’estinzione.
Il denaro dunque non ha mai smesso di essere un semplice strumento dell’economia, peraltro estremamente mutevole e non sempre utilizzato. Nel XVII secolo in molte zone d’Europa – prevalentemente agricole – era ancora in vigore il baratto e solo eccezionalmente si faceva ricorso alle monete. È opportuno poi considerare che, quando ce n’è stato bisogno, i soldi sono stati inventati nei modi più diversi. L’unica condizione è sempre stata quella di essere accettati dai cittadini che dovevano incassarli o spenderli.
Quando in Italia, nel 1975, si era creata una penuria di spiccioli – cui la zecca sopperì solo nel 1978 con un’abbondante conio di monete – furono dapprima usati francobolli e gettoni telefonici (nei bar addirittura caramelle), poi dei «miniassegni» emessi dalle banche. Ne circolarono per un importo totale di oltre 200 miliardi di lire; molti andarono distrutti, o finirono negli album dei collezionisti, procurando al sistema bancario utili a nove zeri.
Quando negli anni del primo conflitto mondiale le esigenze degli armamenti si scontrarono con le regole valutarie in vigore, vinse l’«economia di guerra» e si stampò moneta in quantità spesso esorbitante, rimandando al dopoguerra la soluzione dei problemi inflazionistici che si sarebbero generati. Lo stato maggiore tedesco si fregiò, in quella occasione, del motto «Geld spielt Keine rolle» (il denaro non ha alcuna importanza). Il Direttore generale della Banca d’Italia dichiarò nel 1917: «La Banca ha avuto coscienza della necessità di Stato di dare alla produzione di biglietti un impulso corrispondente a quello che hanno avuto le officine meccaniche con la produzione di proiettili».
L’economista Giacinto Auriti, in polemica con la Banca d’Italia, provocatoriamente, nel 2000 sperimentò nel paese di Guardiagrele, in Abruzzo, il funzionamento di una nuova moneta, il SIMEC, di proprietà del portatore e non dell’Istituto di emissione. I SIMEC, finché la Guardia di Finanza non li sequestrò, furono utilizzati tranquillamente dalla popolazione, dando nuovo impulso alle attività commerciali. Il processo che ne seguì si concluse con una sentenza favorevole ad Auriti; la provocazione era riuscita.
Dunque l’oggetto economico non può che essere il bene; al denaro deve essere riservata l’esclusiva funzione di rappresentare il valore del bene e, solo in questo senso, deve essere utilizzato.
Conseguentemente il denaro dovrebbe essere emesso strumentalmente dallo Stato in una misura adeguata alla ricchezza della nazione. E per ricchezza si intende il valore dei beni mobili ed immobili, dei beni prodotti e di quelli in via di produzione.
Se un governo decide di costruire una grande opera pubblica, ad esempio un’autostrada capace di velocizzare gli spostamenti e semplificare i trasporti, non realizza forse un incremento della ricchezza nazionale? Sarebbe logico allora che lo Stato emettesse moneta pari al valore del nuovo bene con la quale pagare materiali e maestranze.
Perché invece, oggi, è costretto, per pagare il nuovo bene, a emettere Titoli di Stato, quindi accendere un debito, che dovrà essere restituito e sul quale dovrà anche pagare gli interessi?
Scrisse Ezra Pound: «Dire che uno Stato non può perseguire i propri scopi per mancanza di denaro, è come dire che non si possono costruire strade per mancanza di chilometri».
Inoltre, da quando l’emissione della moneta è passata nelle mani delle banche, la quantità di denaro circolante si è moltiplicata a dismisura. Un denaro che inoltre, col passare dei decenni, ha perso ogni forma di garanzia. Si pensi alla copertura aurea. Inizialmente le monete erano scambiate sulla base della loro contropartita in oro, che era accettato come valore di riferimento internazionale. Le banche di emissione delle varie nazioni dovevano conservare nei loro caveau una quantità di lingotti sufficiente a convertire una prefissata percentuale della cartamoneta messa in circolazione.
Nel luglio del 1944, nella conferenza internazionale di Bretton Woods – una cittadina del New Hampshire, negli USA – le potenze in guerra contro l’Europa sottoscrissero un accordo che prevedeva un nuovo metro di scambio internazionale: il dollaro. Dal «gold standard» si passava al «dollar standard». Il dollaro, a sua volta, a differenza delle altre valute del mondo, rimaneva agganciato all’oro col valore di 35 dollari l’oncia.
Ciò nonostante, la Federal Reserve, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non sempre rispettò il rapporto di copertura previsto e il dollaro si vide esposto a pericolose fragilità. Nell’agosto del 1971 il presidente Richard Nixon si vide costretto, pur ribadendo per il dollaro il ruolo di unica valuta di riferimento internazionale, a svincolare definitivamente la moneta statunitense dalla copertura aurea.
Liberate da regole e controlli, le Banche Centrali hanno a questo punto moltiplicato l’emissione di cartamoneta, non più facendo riferimento alla quantità di beni esistenti, né alle garanzie disponibili, ma solo rapportandosi alle necessità di liquido occorrenti al sistema monetario e bancario per le proprie speculazioni.
Oltre al denaro stampato, infatti, va considerato il meccanismo della «riserva frazionaria» grazie alla quale le banche si arrogano il diritto di prestar soldi in misura enormemente superiore ai propri depositi. Le banche sono arrivate a inventar soldi, e a prestarli, fino a 50 volte in più del denaro realmente disponibile. Poi ci sono i giochi di valuta, per cui si fanno figurare momentaneamente in cassa somme di denaro che praticamente non esistono. E infine, grazie alla compravendita di pacchetti finanziari – come si è recentemente visto, spesso pieni di carta straccia – e al gonfiamento artificioso di titoli di borsa, la massa di denaro virtuale – che non corrisponde a ricchezza reale – continua a moltiplicarsi.
Riferisce Sergio Romano sul Corriere della Sera del 27 ottobre 2011: «I portafogli delle maggiori banche d’investimento americane sono passati, da due trilioni di dollari vent’anni fa, a 22 trilioni di dollari nella fase che ha immediatamente preceduto la crisi: quasi il doppio del PIL americano».
Alla fine del 1999 i cosiddetti derivati circolanti nel mondo ammontavano a 30.000 miliardi di dollari, pari al 285% del PIL mondiale; solo dieci anni più tardi, alla fine del 2009, avevano raggiunto la quota di 690.000 miliardi di dollari, cioè il 1057% del PIL mondiale.
Sir Josiah Stamp, direttore della Banca d’Inghilterra dal 1928 al 1941 – un testimone diretto e inconfutabile – scrisse: «Il moderno sistema bancario crea denaro dal nulla. Il processo è forse il più sbalorditivo trucco da prestigiatore che sia mai stato escogitato. Il sistema bancario fu concepito nel crimine e generato nel peccato. I banchieri posseggono il mondo; se glielo si sottraesse, ma gli si lasciasse ancora il potere di creare denaro, con un tratto di penna riuscirebbero ad avere abbastanza denaro per ricomprarselo [...] Gli si sottraesse invece il potere, tutti i grandi patrimoni come il mio scomparirebbero, rendendo il mondo migliore e più felice. Ma se tu accetti di continuare ad essere schiavo delle banche, lascia che le banche continuino a creare denaro e controllare il credito».
Quantificare con esattezza la mole di denaro – reale e virtuale – oggi circolante in tutto il globo è molto difficoltoso, ma grosso modo si è calcolato che sia dieci o dodici volte superiore alla quantità di denaro necessaria per acquistare tutti i beni esistenti al mondo.
E allora a cosa serve tutto questo del denaro?
Solo a dare forza al potere di chi ha in mano i cordoni della borsa, un potere incondizionato sui popoli e sulle nazioni del mondo.
Questi Signori del denaro, gli epigoni della speculazione, come è oggi di moda definirli, o più concretamente, come la chiamava Ezra Pound, dell’usura, hanno passato tre fasi distinte nella loro scalata al potere. La prima è stata la millenaria pratica di prestare a interesse somme di denaro di cui si disponeva. Seconda fase è stata quella di stampare in proprio i soldi da prestare a interesse. La terza è stata quella di prestare soldi che non esistono nemmeno; che non sono stati stampati da nessuna Banca Centrale. Questa è la fase attuale, quella del denaro virtuale.
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Mentre questi giochi finanziari da guerre stellari stanno affamando popoli e schiavizzando nazioni, ogni volta che si suggeriscono strade diverse da quelle imposte dal monetarismo, si contrappongono allarmi di derive inflazionistiche che tendono a scoraggiare qualsiasi riformatore.
Quando nel 1985 Bettino Craxi propose di varare la lira pesante (con un rapporto da 1 a 1000) si disse che l’operazione avrebbe favorito un incremento d’inflazione e l’idea fu bocciata. In questi giorni qualcuno ha cominciato a proporre un ritorno alla lira e la risposta è giunta immediatamente: scatterebbe un’inflazione, anche di diversi punti!
Innanzitutto nessuno si è premurato di sostanziare queste affermazioni con spiegazioni economicamente convincenti. Inoltre nessuno si cura di ricordare ciò che avvenne quando, dodici anni fa, dalla lira si volle passare all’euro, operazione questa fortemente voluta dal sistema bancario e finanziario internazionale. Quella scelta produsse un’inflazione addirittura del 100%. Ciò che costava 10.000 lire in pochissimo tempo arrivò a costare 10 euro, cioè 20.000 lire.
Come mai c’è chi ancora si professa orgoglioso di quella manovra – Prodi, Ciampi, Amato e compagnia bella – e nessuno ricorda loro il pesantissimo prezzo d’inflazione che gli italiani furono costretti a pagare?
Mario Monti, prima di formare il nuovo governo, quello «tecnico», quello delle banche, in una lettera dedicata a un Berlusconi premier «euroscettico», pubblicata sul Corriere del 30 ottobre 2011, ha spudoratamente indicato, tra i meriti dell’euro, l’averci garantito, per dodici anni, un «bassissimo tasso d’inflazione».
Strano poi che la preoccupazione per le impennate inflazionistiche scompaia completamente quando si tratta di tutelare la stabilità del sistema bancario.
È notizia di questi mesi che i ministri finanziari, assieme ai vertici delle Banche Centrali riuniti nel G20 di Washington, hanno deciso di immettere nel sistema bancario una ingente quantità di nuovi dollari. Oltre 3000 miliardi. Perché mai, allora, quando si tratta di economia reale, si esclude ogni possibilità di emissione di nuova liquidità, magari sotto forma di biglietti di Stato?
Siamo al paradosso finale o, meglio, al «dopo il danno la beffa». L’attuale crisi è stata causata dal sistema finanziario – una precisa responsabilità, universalmente riconosciuta – e non dall’economia reale. Non sono colpevoli i lavoratori, gli imprenditori, gli studenti, i contadini, i commercianti: non è responsabilità del popolo, ma delle banche, della finanza internazionale – i cosiddetti «speculatori» –, del potere mondialista che si articola nei suoi istituti tentacolari: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca dei Regolamenti Internazionali, Trilateral, Bilderberg, Goldman Sachs, etc. Ebbene, le decisioni dei concitati vertici che si susseguono in giro per il mondo sono tutte nel segno di aiutare – e doviziosamente – il sistema bancario, non i popoli. Anzi, ai popoli si chiede di pagare il conto.
Seguendo i diktat progressivi dei Signori del denaro, l’atteggiamento del governo greco verso i dipendenti statali è stato emblematico; prima licenziamenti di massa, poi, per chi rimane, decurtazione fino al 40% degli stipendi e infine trattenuta alla fonte di tutti gli impegni con il sistema bancario: mutui, finanziamenti, carte di credito, scoperti di conto corrente. Praticamente il governo greco si è mobilitato per tutelare gli «affari» delle banche, disinteressandosi della sopravvivenza delle famiglie.
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Un’altra domanda sorge spontanea, se si osserva la graduatoria dei debiti pubblici delle nazioni del mondo. Il clamore di queste settimane ha posto in primo piano la Grecia, la Spagna, l’Italia, gli Stati Uniti, l’Irlanda e il Portogallo. Ma la nazione con il debito pubblico percentualmente più alto rispetto al PIL è il Giappone, che supera addirittura il 233%.
Ma del Giappone non si parla. Come mai?
La risposta la si può trovare osservando un’altra graduatoria, quella riguardante le percentuali dei Titoli di Stato piazzati all’estero. Lì troviamo al primo posto l’Irlanda, con un 85%, a seguire: il Portogallo con un 75%, la Grecia col 70 %, gli USA con il 51%, la Spagna con il 46% e l’Italia con il 44%.
E il Giappone? È in fondo alla graduatoria, con uno striminzito 4%.
Allora il problema non è la consistenza del debito pubblico o il mancato pareggio di bilancio, ma di chi ha in mano i Titoli. Se le banche internazionali o i risparmiatori nazionali. Allora il problema è di sovranità finanziaria.
Quando è distribuito all’interno della nazione il debito pubblico può essere anche un’opzione di politica economica non necessariamente negativa. Scriveva l’economista francese Jean Francois Melon: «I debiti dello Stato sono i debiti della mano destra verso la sinistra, e perciò il corpo non ne è indebolito, se ha il corretto nutrimento e sa come distribuirlo».
Per molti secoli in Italia il debito pubblico è stato assorbito dai risparmiatori all’interno dei singoli Stati. Scrive Mauro Carboni: «Nelle città-stato italiane la pianta del debito pubblico si sviluppò in maniera rigogliosa, recando dividenti politici senza provocare contraccolpi economici, dal momento che quasi ovunque il possesso dei titoli era concentrato nelle mani dei residenti e l’onere del debito attivava una circolazione di risorse del tutto interna alla comunità».
A questo riguardo è molto interessante osservare il grafico del debito pubblico italiano negli ultimi quarant’anni. Con lievi oscillazioni il valore si era stabilizzato sul 50% del PIL. A una certa data ha cominciato a salire fino a sfiorare il 120%.
Quella data è il 1981.
E non è forse proprio il 1981 l’anno in cui Andreatta e Ciampi hanno esentato la Banca d’Italia dall’acquisto dei Titoli di Stato ed è cominciata la ricerca di acquirenti all’estero? Potrebbe essere dunque corresponsabile dell’aumento del debito pubblico la diminuzione di sovranità finanziaria? E non è proprio negli anni Ottanta che si è verificato un aumento della pressione fiscale dal 31 al 40%?
Allora, forse, le cose non sono esattamente come ci vengono presentate.
L’oggetto della crisi finanziaria e della conseguente crisi economica è sempre una Nazione succube di forti poteri esterni. Senza libertà e indipendenza economica il popolo, al momento del bisogno, scopre che non può scegliere soluzioni alternative. È la mancanza di sovranità finanziaria che ci paralizza, che ci pone in una situazione di crisi ed aggrava un debito pubblico già appesantito da decenni di dissennata politica incompetente e clientelare. E all’origine della sovranità finanziaria non può che esserci la sovranità monetaria.
Disse Henry Ford: «È un bene che la gente non sappia come funziona il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo sapesse credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione».
Sarebbe dunque bene che qualcuno si prendesse la briga di informare la gente. Ma l’informazione è ancora blindata dal controllo che i poteri forti hanno dei mass media.
Ciò nonostante, le informazioni «politicamente scorrette» sono sempre più numerose e la possibilità che qualcuna di queste possa attraversare le maglie della censura si fa sempre più grande. E in ciò si sta dimostrando molto prezioso il ruolo di Internet.
Riportiamo alcuni esempi di recenti notizie che, appena uscite, sono state sfumate, non è stato dedicato a loro né rilievo, né commenti, e sono state archiviate in un limbo che ricorda molto da vicino il ministero della Verità di orwelliana memoria.
Nel 1913, quando fu delegata ad operare come Banca Centrale americana la privata Federal Reserve, tutti i parlamenti dei singoli Stati, come d’uopo in una nazione federale, furono chiamati a ratificare il voto del Senato.
Tutti approvarono, tranne il North Dakota, uno Stato al confine con il Canada, tra il Montana e il Minnesota, che invece dette vita ad una propria Banca di Stato. Si era formato un forte movimento d’opinione, la Nonpartisan League, che vinse le elezioni ed impose la propria politica ostile a Wall Street e ai banchieri privati.
La Banca del North Dakota è rimasta un istituto pubblico indipendente dal Federal Reserve System, con una storia di tutto rispetto. Anche nel 1929, mentre la grande crisi fece traballare tutte le banche statunitensi, continuò imperturbabile, senza particolari scossoni, la propria attività. Inoltre, mentre tutte le banche del circuito federale sono governate da personaggi nominati dall’«alto» e tutti provenienti dai vivai di Wall Street, i tre massimi dirigenti della Banca del North Dakota sono eletti dai cittadini. E questo, al popolo, giustamente, piace e dà fiducia.
Inoltre si tratta di una Banca che concede finanziamenti a tasso agevolato alle aziende, alle famiglie e agli studenti, ma chiude i bilanci sempre in attivo e distribuisce gli utili ai cittadini sotto forma di detrazioni fiscali.
Oggi, mentre la crisi negli USA schiaccia l’incremento del PIL ad uno striminzito 1% e dilata la percentuale di disoccupazione oltre il 10%, il North Dakota vanta un incremento del PIL a due cifre e ha una disoccupazione sotto il 4%. Pura combinazione?
Altra notizia sfumata: quattro mesi fa il parlamento dello Utah, con una forte maggioranza di 47 voti contro 26, ha deciso di coniare direttamente monete d’oro e d’argento e di emettere biglietti di Stato.
Altra notizia sfumata: gli Stati di California, Ohio e Florida hanno deciso di mettere allo studio una riforma del tipo del North Dakota: Banca di Stato e sganciamento dal Federal Reserve System.
Altra notizia sfumata: in luglio lo Stato del Minnesota ha dichiarato fallimento; tutti i dipendenti pubblici sono stati licenziati e tutti i servizi statali e assistenziali sospesi in attesa che ad occuparsene arrivassero altre autorità con nuovi fondi.
Altra notizia sfumata, anzi del tutto ignorata: nella graduatoria dei debiti pubblici del mondo, nell’ultimissima posizione – solo il 3% rispetto al PIL – c’è la Libia e la Central Bank of Libya è di completa proprietà dello Stato. Evidentemente l’impossibilità di agire sulla Libia, attraverso gli abituali ricatti monetari, aiuta a porre nella giusta luce gli otto mesi di bombardamenti della NATO appena conclusi.
Altra notizia sfumata: il presidente Hugo Chávez ha chiesto il rimpatrio delle 100 tonnellate di oro che il Venezuela aveva in deposito nel caveau della Banca d’Inghilterra.
La vicenda nasce alla fine degli anni Ottanta, al tempo delle presidenze di Jaime Lusinchi e di Carlos Andrés Pérez, quando il Venezuela chiese ed ottenne un prestito dal Fondo Monetario Internazionale e gli fu imposto di depositare, in garanzia, 211 tonnellate d’oro nei caveau delle Banche Centrali d’Inghilterra, Svizzera, USA, Francia e Panama.
Saldato da molti anni il debito – grazie al petrolio e all’oro di cui quel paese americano è ricco – Chávez ha, in un primo momento, deciso di lasciare in custodia – regolarmente retribuita – l’oro nei caveau dove si trovava. Oggi, probabilmente in considerazione della turbolenza dei mercati e della gravità della crisi finanziaria internazionale, ne ha invece chiesto la restituzione. Ma la richiesta di Chávez a Londra ha creato un forte imbarazzo. Per le proprie speculazioni, la Banca sembrerebbe abbia venduto non solo il proprio oro, ma anche quello del Venezuela che aveva in custodia.
Ora si stanno agitando; devono trovare un modo per uscire d’impaccio, ma l’acquisto ­ – in una volta sola – di 100 tonnellate d’oro sul mercato internazionale, farebbe ulteriormente gonfiare le quotazioni che in questo momento hanno già toccato i massimi storici. Si sta diffondendo il sospetto che Londra abbia messo gli occhi sui depositi aurei della Libia di Gheddafi: sono giuste giuste 140 tonnellate...
Questa storia, oltre ad appartenere alla categoria delle notizie sfumate, è una storia preoccupante. Infatti gran parte delle 2.500 tonnellate dell’oro della Banca d’Italia non è a Roma, ma a Londra e negli Stati Uniti, a Fort Knox. Sembra che l’ultima ispezione in quei caveau risalga a molti anni fa. Ci può essere il rischio che l’oro di Bankitalia abbia fatto la fine   

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