Seguendo le notizie della crisi
finanziaria globale su giornali e telegiornali, sembrerebbe emergere il
volto del responsabile di ogni male, del nemico principale da
sconfiggere: il debito pubblico.
Si dice che sia il risultato di una spesa statale scriteriata e
clientelare, ed in parte è sicuramente vero. Si dice che sia stato
creato da una politica spendacciona e ladra oltre ogni ritegno, e anche
questo è vero.
Si dice poi che sia proprio lui, il debito pubblico, il responsabile
della instabilità della moneta, della crisi economica e del
rallentamento dello sviluppo produttivo. Ma su ciò qualche dubbio sorge.
Più si analizza la situazione infatti, cercando di liberarsi da
pregiudizi, paraocchi e dalle suggestioni create dai mass media, più la
questione del debito pubblico non appare così semplice e sorgono
spontanee domande alle quali è legittimo cercare risposte.
Come nasce il debito pubblico? Quali sono e come funzionano i meccanismi
che lo fanno diventare un fenomeno cronico? Chi è oggi il proprietario
del debito pubblico delle nazioni in crisi? Che rapporto intercorre
tra debito pubblico e libertà dei popoli?
Sarà bene cominciare dall’inizio.
Louis Even, il propugnatore del Credito Sociale,
scrisse sull’argomento un racconto illuminante: cinque naufraghi
riuscirono a raggiungere un’isola deserta. Si trattava di un muratore,
un contadino, un allevatore, un esperto in agraria e un ingegnere
minerario.
Secondo le rispettive competenze, i cinque si dettero da fare per
realizzare una comunità funzionale e soddisfacente. Il muratore si mise a
costruire capanne; l’allevatore cominciò a catturare e porre in
recinti gli animali utili per ottenere latte, uova e carne; l’agronomo e
il contadino si dedicarono ai frutti della terra; l’ingegnere procurò i
metalli per forgiare utensili, pentolame, chiodi e quant’altro era
necessario.
La vita procedeva serena; un solo inconveniente creava qualche problema
di convivenza: lo scambio dei beni, frutto delle rispettive attività,
non poteva avvenire in uno stesso momento e la mancanza di appropriati
strumenti economici imponeva una serie di riunioni con discussioni
piuttosto complesse.
Successivamente arrivò sull’isola il sopravvissuto di un altro
naufragio. Sbarcò da una scialuppa malridotta con la quale aveva portato
poche cose frettolosamente salvate, tra cui una pressa, una cassa
piena di carta e un barile sigillato. Il nuovo arrivato fu ben accolto
dai cinque, contenti di veder la propria comunità crescere, e la loro
gioia aumentò quando seppero che si trattava di un banchiere. Proprio
quello che mancava: una persona capace di organizzare l’economia
dell’isola.
Il banchiere, preso atto delle attività dei cinque, disse:
«Per
far funzionare bene le cose vi manca solo il denaro. È con il denaro
che il contadino può comprare oggi ciò di cui ha bisogno senza dover
aspettare la stagione del raccolto, e così gli altri il momento in cui
avranno finito di costruire una capanna o di fabbricare un utensile. Io
posso facilmente risolvere i vostri problemi. Con la carta e la pressa
posso stampare 1000 dollari. Il barile che ho con me è pieno d’oro; lo
sotterrerò in un posto segreto e lo lascerò in garanzia della
copertura del denaro coniato. Vi presterò duecento dollari a testa a un
interesse bassissimo: il 2% annuo. Io sarò garantito dai frutti delle
vostre attività, dalle vostre capanne e dai vostri attrezzi».
Tutti si sentirono soddisfatti perché, risolta la questione della
liquidità commerciale, ognuno poté tornare alle proprie attività senza
avere più problemi. Ma la serenità durò fino a quando, passato un certo
tempo, cominciarono a fare dei conti e scoprirono una situazione assai
spiacevole. L’ammontare del loro debito – capitale più gli interessi
maturati – era superiore all’intero importo del circolante. Arrivò
quindi il momento in cui fu indispensabile, per pagare gli interessi,
mantenendo inalterata la liquidità necessaria all’economia dell’isola,
chiedere altri prestiti, che il banchiere fu ben contento di concedere.
In quell’isola era così nato il debito pubblico. Un debito destinato ad aumentare anno dopo anno.
Inevitabilmente il banchiere, a forza di conteggiare interessi, e gli
interessi sugli interessi, stava diventando il padrone di tutti i beni
presenti sull’isola e manifestava il proprio potere imponendo ai cinque
quello che a parer suo dovevano o non dovevano fare. I cinque allora
compresero quale errore fosse stato accettare quei 1000 dollari e che,
se il denaro se lo fossero stampato loro, senza l’intromissione di quel
banchiere venuto dal mare, non avrebbero avuto i problemi che ora li
affliggevano.
Il denaro rappresentava il valore dei beni presenti sull’isola e quindi,
essendo loro i proprietari dei beni, avrebbero dovuto essere anche i
proprietari del denaro sul quale nessuno avrebbe potuto pretendere il
pagamento di interessi. I cinque allora, compresa la truffa, si
ribellarono, rimisero il banchiere sulla barca con la quale era
arrivato, e lo ricacciarono violentemente in mare.
A completare la vicenda, Even racconta che, quando i cinque andarono a
dissotterrare il barile che doveva rappresentare la copertura aurea
della moneta stampata, scoprirono che era pieno di sassi.
Nella realtà storica le cose sono andate pressappoco nello stesso modo, a
parte la risolutiva conclusione della vicenda, la ricacciata in mare
del banchiere e della sua barca.
Nel 1694, in Inghilterra, succeduto in modo turbolento a
Giacomo II Stuart, regnava
Guglielmo III d’Orange,
che aveva vissuto in Olanda in un ambiente di mercanti e banchieri ed
era stato educato secondo i valori calvinisti. Guglielmo era impegnato
in un grande sforzo bellico contro la Francia di Luigi XIV, il Re Sole.
La flotta era stata raddoppiata e l’esercito rifatto ex novo. Le spese
militari superavano il 74% dell’intera spesa pubblica e la necessità
di reperire nuovi fondi aumentava a vista d’occhio.

L’imposizione
fiscale era altissima e Guglielmo temeva, esigendo nuove tasse, di
perdere il consenso della nobiltà e della borghesia. In quegli anni
l’economista francese
Jean-Baptiste Colbert scriveva:
«La tassazione è l’arte di spennare l’oca in modo tale da avere il massimo di piume con il minimo possibile di starnazzi».
Si fece quindi allettare dalle proposte di un banchiere scozzese, William Paterson – capofila di una cordata di banchieri e appoggiato dal tesoriere dello Scacchiere, Lord Montague
– che gli offrì un prestito a interesse di un milione e 200 mila
sterline. Ciò significava spostare il problema. Disporre del denaro
subito e rimandare a tempi successivi le conseguenze negative per i
cittadini contribuenti.
Le condizioni poste furono queste: oltre ad incassare gli interessi
dell’8%, Paterson doveva essere autorizzato ad emettere banconote per un
importo pari al prestito concesso al governo. Scrisse il banchiere:
«Se
i proprietari della banca potranno far circolare la somma di un
milione e duecentomila sterline senza avere in giacenza più di
duecentomila o trecentomila sterline, questa banca immetterà nella
Nazione nuova moneta per un importo di novecentomila o un milione di
sterline».

Poi
si seppe che, nella realtà, la quantità di sterline emesse e la
copertura offerta dalla nascente banca in questa operazione erano state
differenti: nel 1696, a fronte di 1.750.000 sterline stampate,
esisteva una riserva di cassa di sole 36.000 sterline d’oro.
Il parlamento, sotto la pressione del re, autorizzò l’operazione e Paterson fondò, assieme ai suoi soci, la
Banca d’Inghilterra
che, nonostante il nome che farebbe pensare ad una istituzione dello
Stato, era una ditta assolutamente privata, allora con soli 19
dipendenti.
William Paterson sintetizzò il senso dell’operazione con una frase estremamente chiara:
«La banca trae beneficio dall’interesse che pretende su tutta la moneta che crea dal nulla».
Quell’emissione di sterline fu solo la prima di una lunghissima serie.
La convertibilità in oro di quella cartamoneta fu da subito un fatto
formale, poiché il reale rapporto tra quantità di denaro stampata e
disponibilità aurea presente nei depositi della banca era tenuto
assolutamente segreto, sia all’esterno che all’interno dell’istituto;
era informazione riservata esclusivamente al Governatore.
È poi il caso di ricordare che la convertibilità in oro della sterlina
fu sospesa nel 1914, molto prima del dollaro (15 agosto 1971) e di tutte
le altre valute.
Fino al 1694, sia in Inghilterra che altrove, l’unica moneta
ufficialmente circolante era stata quella coniata dallo Stato. Da
allora, invece, la moda di delegare l’emissione del denaro a banche
private si è diffusa ovunque. E gli Stati pagano a questi soggetti gli
interessi per il denaro stampato.
Sul modello della banca di Paterson furono istituite: nel
1695 la
Bank of Scotland, nel
1765 la Königliche Giro und Lehnbanco di Berlino, nel
1782 il Banco di San Carlo di Madrid, nel
1800 la Banca di Francia.
Un tempo il potere di coniare moneta era riservato alla massima
autorità: re, duca o principe. Chi possedeva oro o argento poteva
portarlo alla zecca dello Stato che provvedeva a trasformare il metallo
prezioso in monete. Una piccola parte di questo metallo veniva
trattenuta come compenso per l’operazione di conio. Questo compenso si
chiamava signoraggio ed era un privilegio gelosamente custodito e difeso
dall’autorità, perché rappresentava anche un’importante fonte di
entrate. Oltre al compenso per il conio, che alla bisogna poteva essere
anche gonfiato, erano evidenti i numerosi vantaggi derivanti dal
controllo delle zecche. Non fu raro che la padronanza dell’emissione
della moneta garantisse allo Stato consistenti entrate finanziarie,
apparentemente senza pesare sui contribuenti. Il termine signoraggio si è
conservato, ed ancor oggi indica tutti i benefici che sono riservati a
chi emette moneta, che però non è più il signore – lo Stato – ma le
banche private il cui mestiere non è perseguire gli interessi della
Nazione, bensì i propri utili e farsi complici dei giochi degli
speculatori.
Dunque, non si comprende in virtù di quale criterio di legittimazione, i
proprietari del denaro smettono di essere il re, o lo Stato, o il
popolo, e lo diventano i banchieri.
Nasce così il moderno debito pubblico, il debito pubblico permanente.
Dalla data della fondazione della banca di Paterson al 1788 – meno di un secolo –
il debito pubblico dell’Inghilterra passa da 13 milioni di sterline a 245 milioni, con un incremento del 1800%.
Non è che una volta il debito pubblico non esistesse: i monarchi nella
storia, soprattutto per finanziare guerre, hanno sempre fatto ricorso a
ingenti prestiti. Ma generalmente erano vicende che avevano un inizio e
una fine.

A
guerra vinta il denaro veniva restituito e gli interessi pagati –
anche quando raggiungevano le quote usurarie del 30-40% – o, a guerra
persa, veniva destituito il re o il governo e il prestito spesso andava a
farsi benedire. Generalmente la questione veniva trattata come un
affare andato male o un investimento sbagliato. Sono rimasti famosi i
casi dei
Bardi e dei
Peruzzi, finiti in rovina per l’insolvenza di re
Edoardo III d’Inghilterra, e della filiale di
Bruges dei
Medici, messa in liquidazione dopo il pessimo esito del finanziamento concesso al
duca di Borgogna Carlo il Temerario. I creditori di
Filippo IV di Francia – il Bello – oltre a non riscuotere il dovuto, furono cacciati dal regno.
Più che di debito pubblico in effetti si trattava di vicende legate a case regnanti e a singoli eventi storici.
Dopo il 1694, un po’ come abbiamo visto nel racconto dei naufraghi,
quella del debito pubblico diviene invece una malattia cronica.
In queste settimane si fa un gran parlare di
disavanzo e
avanzo primario.
Si tratta della differenza tra le entrate e le spese pubbliche al
netto degli interessi. Appare evidente che ogni situazione, anche la
più complessa e apparentemente compromessa, con una politica oculata e
una sufficiente dose di buona volontà, potrebbe essere sistemata. Sono
gli interessi che fanno la differenza e condannano alla cronicità e al
peggioramento i debiti pubblici.
Sotto gli occhi abbiamo il caso della Grecia. Indubbimente una
congiuntura molto pesante; per questo motivo le agenzie di rating
declassano la solvibilità di quel debito e gli «aiuti» vengono offerti a
interessi sempre più alti. Può, a questo punto, una nazione,
ragionevolmente, riuscire a sanare la propria situazione economica e
contemporaneamente pagare interessi usurai in continua crescita (nel
caso specifico per ora hanno superato il 19%), per giunta maggiorati in
funzione dell’anatocismo (gli interessi sugli interessi)? Si tratta di
una semplice follia di carattere economico o, più propriamente, di un
disegno mal celato di dominio planetario attuato con cinismo sulla pelle
dei popoli?
Può una nazione rimanere libera e sovrana vivendo una tale realtà se non
ricorre alla rivolta e al rigetto della carità pelosa degli usurai?
* * *
Le banche di emissione, dunque, dopo il 1694 diventano quasi tutte private.
Nel 1937, sotto Stalin,
divenne privata persino quella dell’Unione Sovietica: il deus ex
machina dell’operazione fu il plurimiliardario petroliere
ebreo-americano Armand Hammer.
Il Federal Reserve Act – l’atto istitutivo della Banca Centrale americana, la più grande banca privata del mondo – è del 23 dicembre 1913.
Si trattava di organizzare la gran massa di «promesse di pagamento»
emesse in ogni angolo degli Stati Uniti. Si respirava aria di guerra. In
Europa stava per scoppiare il primo conflitto mondiale e per gli
americani l’occasione si presentava ghiottissima. L’industria bellica
poteva moltiplicare la produzione e concludere affari d’oro. Persino
l’Inghilterra, per la prima volta nella storia, aveva varcato l’oceano
per chiedere denari in prestito all’America.
Con l’istituzione della Riserva Federale si reperirono soldi
direttamente presso i contribuenti statunitensi. Scrive l’economista Gertrude M. Coogan:
«L’America
fu sottoposta alla prima sottoscrizione per la ”Libertà” – Liberty
Loans –. Il modo in cui avvenne tale finanziamento era estremamente
semplice, grazie all’esistenza di questo grande sistema bancario
centralizzato. Le banche delle piccole comunità anticiparono alla Banca
della Riserva Centrale il 5% del totale del prestito che era stato
proposto. Il governo stampò i titoli e li inviò alle banche delle
comunità. Ricevuti i titoli, le banche delle comunità ne accreditarono
il valore totale sul conto di deposito del Governo degli Stati Uniti.
Era semplicemente un metodo legalizzato col quale le banche creavano,
mediante artifici contabili, il 95% dei fondi anticipati al Governo
degli Stati Uniti. Il Governo degli Stati Uniti, ovviamente, si rivelò
magnanimo e fu disposto a pagare gli interessi a queste banche in
cambio del loro grande privilegio di creare moneta da prestare al
Governo. In effetti è proprio un Governo magnanimo quello che concede a
pochi individui il privilegio di creare moneta per esso e consente poi
che i suoi cari cittadini, avvezzi a lavorare duramente, comprino
quella moneta artificiosa e paghino anche successivamente un tributo
sotto forma di interesse».
Charles Lindbergh – non a caso avversato e vilipeso
dall’intero establishment finanziario e politico rooseveltiano – definì
il Federal Reserve Act «il peggior crimine legislativo di tutti i tempi».
Anche la Federal Reserve fu clonazione dell’Istituto di emissione di Londra, come la gran parte delle Banche Centrali del mondo. Eccezione alla tendenza generale, tra le due guerre mondiali, fu la Germania, che nazionalizzò la sua banca di emissione. L’art. 2 della legge sulla Reichsbank recitava:
«I
compiti della Banca Tedesca del Reich derivano dalla sua posizione di
banca d’emissione del Reich. Essa sola ha il diritto di emettere
banconote. Deve inoltre regolamentare le transazioni e le operazioni
finanziarie in Germania e all’estero. Deve
anche provvedere alla utilizzazione dei mezzi economici disponibili
dell’economia tedesca nel modo più appropriato per l’interesse
collettivo e politico-economico».
L’Italia si situò in una posizione intermedia che fu frutto di una serie di compromessi.
Nel 1874 le banche autorizzate a
emettere moneta erano sei: la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la
Banca Nazionale della Toscana, la Banca Toscana di Credito, la Banca
Romana, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.
Poi, con una legge del 1893, promulgata a seguito del fallimento della
Banca Romana, i 4 istituti dell’Italia centro-settentrionale vennero
fusi, dando vita alla Banca d’Italia, e rimasero ancora attivi per
l’emissione della lira anche il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.
Solo con la riforma del 1926 la Banca d’Italia resta l’unica con diritto
di battere moneta.

Diverse correnti del fascismo avrebbero voluto la nazionalizzazione della Banca Centrale, ma Mussolini fu frenato dalle pressioni che arrivavano dall’estero, particolarmente dalla Federal Reserve e dalla Banca d’Inghilterra, che minacciavano di sabotare la stabilità della moneta italiana.
Le opinioni di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano particolarmente peso
perché proprio con queste due nazioni il Governo italiano si era
indebitato negli anni della Prima Guerra Mondiale, per finanziare i
propri impegni militari. A causa di ciò il debito pubblico italiano si
era gonfiato a dismisura fino a raggiungere il 150% del PIL. Pesante
eredità che il fascismo, arrivato al potere, si trovò a gestire.
Tra il 1922 e il 1926 il governo Mussolini – ministro di Finanze e Tesoro Alberto De Stefani –
si fece promotore di una serie di operazioni decise e coraggiose,
accompagnate da una politica economica internazionale diplomatica e
accomodante.
I risultati furono numerosi e importanti: in quattro anni il debito
pubblico passò dal 150% al 50% del PIL; fu azzerato il debito con
l’estero; il 2 giugno 1925 De Stefani annunciò il raggiungimento del pareggio di bilancio; la spesa pubblica passò dal 35 al 13% del PIL; i disoccupati diminuirono da 600.000 a 100.000;
l’inflazione fu bloccata da una serie di iniziative tra le quali si
ricorda – la più spettacolare – l’incenerimento di sacchi pieni di
banconote; furono distrutti oltre 320 milioni di lire. L’immagine di De
Stefani che sovraintende l’eliminazione di ingenti
quantitativi di denaro marca la differenza tra un mondo nel quale il
potere politico aveva la forza di governare l’economia e l’odierno,
squallido panorama nel quale le decisioni vengono assunte dai Signori
del denaro e ai politici è riservato il ruolo di servizievoli
camerieri.
Nell’agosto del 1926 Mussolini,
risanata l’economia nazionale, poté incamminarsi verso la conquista di
«quota novanta» – quotazione di novanta lire per una sterlina inglese,
facendo rientrare la nostra moneta nel gold exchange standard –
imponendo un nuovo vigore al ruolo internazionale dell’economia
italiana e della lira.
Il 18 agosto, a Pesaro, in un discorso improvvisato rimasto famoso,
Mussolini, dopo aver lodato le qualità e le caratteristiche della
popolazione marchigiana, affermò:
«Noi condurremo con la più strenua
decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza
a tutto il mondo civile dico che difenderò la lira fino all’ultimo
respiro, fino all’ultimo sangue. Non infliggerò mai a questo popolo
meraviglioso d’Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre
come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento
della lira. Il regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai
tentativi di jugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a
stroncarle quando siano individuate all’interno».
L’obiettivo «quota novanta» fu raggiunto nel dicembre 1927.
Questa operatività la si poteva ottenere solo disponendo direttamente della sovranità economica e monetaria.
Mussolini non volle nazionalizzare la Banca Centrale,
e con ciò andare in urto con i due massimi creditori internazionali
dell’Italia ma, con la riforma del 1926, escogitò un sistema di
controllo – indiretto ma efficace – dell’Istituto di emissione della
lira.
La Banca d’Italia rimase un Istituto indipendente – prima una Società
autonoma, poi una Società per Azioni – la cui proprietà però fu affidata
a un consorzio di Enti statali e di Banche, con preponderanza delle
Casse di Risparmio e delle grandi Banche di interesse nazionale che
qualche anno dopo sarebbero diventate, con l’IRI, proprietà dello Stato.
La legge prevedeva che le variazioni del tasso di sconto dovevano essere
concordate con il ministero delle Finanze e autorizzate dal governo, e
che la Banca d’Italia fosse obbligata ad acquistare i Titoli di Stato
emessi dal governo.
Nel dopoguerra la situazione non variò sostanzialmente, fino agli anni Ottanta.
Nel
1981 – era governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi e ministro
del Tesoro Beniamino Andreatta – fu sancito il diritto della Banca
Centrale a non sottoscrivere – sia parzialmente che in toto – i Titoli
di Stato.
La Federal Reserve aveva ottenuto nei confronti del Governo USA un
analogo provvedimento già nel 1951. Su preciso ordine delle tre potenze
occidentali occupanti la «zona Ovest», la Banca di emissione tedesca
rifondata nel dopoguerra – la Deutsche Bundesbank – fu costituita libera
da ogni vincolo verso i Titoli di Stato.
Nel 1992 l’ex governatore Guido Carli, nelle vesti di ministro del Tesoro, abolì il controllo del governo sul tasso di sconto, che rimase appannaggio esclusivo della Banca d’Italia. Il definitivo divorzio tra Stato e Istituto di emissione fu decretato poi in quegli anni dalle privatizzazioni gestite da
Romano Prodi e
Mario Draghi.
La stragrande maggioranza delle azioni di Bankitalia infatti, fino
allora nelle mani di Enti statali o di Banche o Assicurazioni dello
Stato, grazie alle privatizzazioni, passarono a soggetti assolutamente
privati.
La maggioranza delle azioni è oggi in mano a
Intesa San Paolo e
Unicredit. Gli unici enti di Stato rimasti dentro Bankitalia sono l’
INPS, con uno striminzito 5% di azioni e l’
INAIL con un simbolico 0,6%.
A completare l’opera, con le grandi fusioni bancarie, cessarono di esistere molte
Casse di Risparmio – le più importanti – che, anch’esse comproprietarie della
Banca d’Italia,
erano fino a quel momento vincolate a comportamenti estranei alla
disinvolta speculazione finanziaria e a conservare i propri radicamenti
territoriali.
Il 28 dicembre 2005 si è verificato un fatto in controtendenza.
Nell’ambito della cosiddetta Legge a tutela del Risparmio, numero 262,
al punto 10 dell’articolo 19, si stabilisce che entro tre anni, a
decorrere dal 12 gennaio 2006, dovevano essere trasferite a enti statali
tutte le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in
possesso di soggetti privati.
Ma il gennaio 2009 è passato da un pezzo e nulla di ciò è avvenuto.
Illegalmente, dunque, i proprietari di Bankitalia sono ancora le banche
private.
Perché nessuno ne ha parlato? Perché nessuno protesta, nemmeno Giulio Tremonti che quella legge volle e firmò?
C’è qualcuno, in questi mesi di grandi manovre fiscali e di tagli della
spesa pubblica, che ha avanzato la proposta di vendere l’oro della
Banca d’Italia – sono 2.500 tonnellate – per abbassare il livello del
debito pubblico. Ma, semplicemente, non lo si può fare. Perché
quell’oro, che è nei bilanci delle banche, non è del popolo italiano:
non è nell’attivo dello Stato.
Recentemente hanno destato stupore le controverse vicende che hanno
caratterizzato la nomina del nuovo governatore della Banca d’Italia.
Alla candidatura di Fabrizio Saccomanni, direttore generale
dell’Istituto e delfino di Mario Draghi, si era opposta quella di
Vittorio Grilli, direttore generale del ministero del Tesoro,
caldeggiata da
Giulio Tremonti e
Umberto Bossi. Dopo settimane di incertezza la scelta ha finito per premiare un terzo nome, quello di
Ignazio Visco.
Per comprendere ciò che è realmente accaduto, al di là delle laconiche,
evasive cronache giornalistiche, occorre fare un passo indietro e
mettere in primo piano l’Istituto di cui nessuno in questa occasione ha
mai parlato: la
BRI di
Basilea, la
Banca dei Regolamenti Internazionali.
La BRI fu istituita dopo la Prima Guerra Mondiale per organizzare i
trasferimenti valutari relativi al piano di riparazioni imposto alla
Germania dopo il Trattato di Versailles. Esaurito il suo ruolo
originario, la BRI divenne l’Istituto di coordinamento di tutte le
Banche centrali del mondo; la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra
hanno in mano il 40% della sua proprietà, una quota sufficiente a
garantirne l’assoluto controllo.
Dunque, Saccomanni è uomo della
BRI – membro del
Consiglio di amministrazione – mentre Grilli è un tecnico dello Stato
italiano, e per questo sponsorizzato da alcuni ministri del governo.
Alla fine, con «soddisfazione di tutti», seguendo il vecchio adagio
«tra i due litiganti il terzo gode», è stato nominato Visco. Un uomo
nuovo, un outsider? No, nessuno lo ha rimarcato, ma si tratta di un
altro uomo targato BRI; anche lui fa parte di quel Consiglio di
amministrazione.
Dunque, oplà! Due piroette e tre salti mortali e tutto è rimasto come
prima: a capo della Banca d’Italia c’è ancora un esponente del sistema
bancario internazionale.
* * *
È quindi ineluttabile che il monopolio dell’emissione della moneta
rimanga in mani private? Nessuno si è mai ribellato tentando strade
diverse?
Le cose non stanno proprio così.
Abramo Lincoln,
per quadrare il bilancio degli Stati Uniti, nel 1862, aveva bisogno di
449 milioni di dollari. Le banche inglesi fecero conoscere la loro
disponibilità ad erogare un prestito al 30% di interesse.
Lincoln sdegnosamente rifiutò ed affermò che:
«Ogni
governo può creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il
credito necessari per soddisfare le proprie necessità di spesa ed il
potere d’acquisto dei consumatori».
Ed ancora:
«La
moneta è la creatura della legge e l’emissione originaria della moneta
deve essere mantenuta quale esclusivo monopolio del governo
nazionale».
Con una legge del 25 febbraio 1862 – Legal Tender Act – si dette il via
all’emissione di dollari di Stato – che per il colore dell’inchiostro
usato furono chiamati greenbacks, «biglietti verdi» – sui quali il
governo non avrebbe dovuto pagare alcun interesse.
D’altronde lo scontro tra la classe dirigente statunitense e le banche
private non era una novità fin dall’epoca coloniale. Nel 1757 Benjamin
Franklin fu chiamato, in qualità di rappresentante delle colonie, a
relazionare al parlamento britannico e, per spiegare la prosperità dei
territori amministrati in America, affermò: «Nella colonia emettiamo la
nostra moneta, chiamata Colonial Script [biglietto coloniale]. La
emettiamo in proporzione alla domanda commerciale ed industriale per
facilitare il passaggio delle merci dal produttore al consumatore. In
questo modo, creando noi stessi la moneta, ne controlliamo il potere
d’acquisto e non dobbiamo pagare interessi a nessuno».
Tra
i presidenti statunitensi che precedettero Lincoln si schierarono
contro i tentativi dei banchieri di controllare la moneta USA Thomas Jefferson, James Madison e Andrew Jackson. È nota l’affermazione di Jefferson:
«Io
credo che le istituzioni bancarie siano più pericolose per la nostra
libertà di quanto non lo siano gli eserciti nemici. Esse hanno già
organizzato una potente lobbie che ha attaccato il governo con
arroganza. Il potere di emissione deve essere tolto alle banche e
restituito al popolo, al quale legittimamente appartiene».
Tornando a Lincoln, i banchieri statunitensi e quelli inglesi, peraltro
tra loro strettamente collegati, non digerirono facilmente la decisione
di stampare dollari di Stato. Il Times di Londra in quella circostanza
scrisse:
«Se
la perversa politica finanziaria adottata dalla repubblica
dell’America settentrionale nel corso dell’ultima guerra combattutasi in
quel paese dovesse piantar radici ancor più solide, allora quel
Governo provvederà alla fornitura della propria moneta senza alcuna
spesa. Esso salderà i suoi debiti e se ne libererà. Avrà tutta la
moneta necessaria a svolgere le proprie attività commerciali. Diventerà
prospero al di là di qualsiasi precedente nella storia dei Governi
civili del mondo. I cervelli e le risorse di tutti i paesi confluiranno
nell’America settentrionale. Quel Governo deve essere distrutto o esso
distruggerà ogni monarchia del globo».
Nel 1864 Lincoln si ricandidò alla presidenza degli Stati Uniti e
durante la campagna elettorale dichiarò, ripetutamente, la sua
intenzione di continuare ad emettere i dollari di Stato, ma il 14 aprile
1865 fu ucciso. Qualche storico è arrivato a insinuare che dietro John
Booth, l’assassino di Lincoln, ci fossero addirittura dei legami
riconducibili a casa Rothschild.
Per l’occasione, il capo del governo prussiano, Otto von Bismarck, dichiarò:
«La
morte di Lincoln fu un disastro per la Cristianità. Non v’era negli
Stati Uniti un uomo che fosse abbastanza grande da calzare i suoi
stivali e i banchieri hanno rinnovato i loro sforzi per impossessarsi
delle ricchezze del mondo. Temo che saranno proprio loro, con la loro
astuzia e con i loro espedienti tortuosi, ad assumere pieno controllo
delle abbondanti ricchezze dell’America e a servirsene sistematicamente
per corrompere la moderna civiltà. Essi non esiteranno a far
sprofondare l’intera Cristianità nelle guerre e nel caos, affinché la
Terra diventi loro proprietà».
Sta di fatto che con quell’assassinio l’esperimento dei dollari di Stato
si concluse. Ciò nonostante è stato calcolato che l’emissione del 1862
fece risparmiare nel corso degli anni, al governo degli Stati Uniti,
oltre 11 miliardi di dollari di interessi.

Tragica analogia con questi avvenimenti la troviamo con
John Fitzgerald Kennedy.
Negli anni Sessanta la consistenza del debito pubblico statunitense
aveva raggiunto dimensioni preoccupanti e il giovane presidente,
succeduto a Eisenhower, riconsiderò il meccanismo che determinava
l’emissione dei dollari.
Il marchingegno della Federal Reserve – così come quello delle maggiori
banche centrali del mondo – è, come abbiamo visto, quello di stampare
moneta che, gravata da interessi, viene prestata al governo il quale si
rifà sui cittadini, incassando le tasse. È a tal proposito interessante
ricordare che il
XVI emendamento della Costituzione degli USA è stato promulgato nel
1913,
contemporaneamente al Federal Reserve Act. Si tratta dell’emendamento
che attribuisce al Congresso «la facoltà di imporre e riscuotere tasse
sui redditi derivanti da qualunque fonte senza ripartirle tra i vari
Stati e senza dover tenere conto di alcun censimento»; configura cioè
il collegamento indispensabile per far confluire direttamente, dalle
tasche dei contribuenti statunitensi alle casse della Federal Reserve, i
denari necessari al pagamento degli interessi sull’emissione dei
dollari.
Kennedy riteneva che il debito pubblico poteva essere ridotto
semplicemente smettendo di pagare gli interessi sull’emissione dei
dollari e, il 4 giugno 1963, appellandosi all’articolo I, sezione 8,
parte 5 della Costituzione che attribuisce al governo il potere di
«battere moneta, stabilire il suo valore e quello delle monete straniere», firmò l
’ordine esecutivo presidenziale numero 11.110
con il quale disponeva l’emissione di una prima tranche di dollari di
Stato – stampati cioè dal ministero del Tesoro e non dalla Federal
Reserve – per 4 miliardi e mezzo in tagli da due e da cinque. Erano
dollari quasi identici a quelli già in circolazione, ad eccezione della
scritta in alto che, invece di
«Federal Reserve Note», era
«United States Note», e del colore – rosso anziché verde – con il quale era stampato il marchio e il numero di serie.
Dopo cinque mesi, il
22 novembre 1963, Kennedy fu ucciso a Dallas.
C’è una relazione tra questo assassinio e l’ordine esecutivo numero 11.110?
Si tratta di uno di quegli avvenimenti storici attorno ai quali è
stata diffusa una nebbia così fitta da ritenere che una risposta certa
non la si potrà mai formulare, ma molti storici e giornalisti che hanno
approfondito l’argomento sono propensi a individuare, come probabili
mandanti, gli ambienti dell’Alta Finanza internazionale.
Certo è che da allora nessun presidente statunitense ha osato parlare più di dollari di Stato sui quali non pagare interessi.
Ma i biglietti di Stato non sono la moneta dei marziani. Possono
rappresentare una soluzione assai agevole, logica, probabilmente anche
decisiva. Non sono cose d’altri mondi. Perché oggi, nel bel mezzo di una
crisi galoppante, tra una manovra e l’altra, nessuno ne parla? Forse è
vietato? E da chi?
Eppure anche in Italia si è spesso fatto ricorso a provvedimenti del genere. Il governo
Minghetti fece stampare biglietti di Stato nel
1874,
De Pretis nel
1882 e nel
1883,
Giolitti nel
1893 e nel
1904,
Zanardelli nel
1902, Mussolini ne emise due volte prima della riforma della Banca Centrale, nel 1923 e nel 1925, altre quattro volte in seguito, senza contare il periodo della Repubblica Sociale.
Persino
De Gasperi emise biglietti di Stato da cinquanta e cento lire nel
1951. L’ultimo a farlo fu A
ldo Moro, due volte, nel
1966 e nel
1975.
Vi ricordate i biglietti da 500 lire? Erano biglietti di Stato, come i
dollari di Lincoln e di Kennedy, biglietti per i quali nemmeno una lira
di interessi è stata mai pagata dallo Stato, quindi dai contribuenti.
Biglietti sui quali era stampato «Repubblica Italiana» e non «Banca
d’Italia».
Anche le monete metalliche, ancora oggi, sono coniate dallo Stato e non
costano interessi. Infatti, mentre gli euro in cartamoneta sono
identici in tutte le nazioni europee, le monete hanno in comune una
sola facciata, l’immagine del retro è differenziata da Stato a Stato. I
denari cartacei sono stampati dalla Banca Centrale Europea, che è
banca privata in quanto proprietà delle Banche Centrali europee, le cui
azioni – come abbiamo visto nel dettaglio per ciò che riguarda la
Banca d’Italia – sono in mano alle banche private. Le monete sono
prodotte invece nelle zecche dei singoli Stati, ma il loro valore
complessivo, rispetto al totale della moneta cartacea, è così infimo da
rendere questo residuo di sovranità monetaria unicamente simbolico.
* * *
I soldi furono inventati per rendere più agevole il funzionamento
dell’economia e risolvere tutti quegli inconvenienti che nelle società
primitive erano determinati dal baratto. Uno strumento dunque, non un
bene in sé. È opportuno tenere bene in mente questo concetto in questi
tempi nei quali, da decenni, il denaro è stato posto addirittura a
ricoprire il ruolo del fine da perseguire, del metro di valutazione di
ogni cosa e di ogni fatto; a rappresentare il valore dominante.
Correttamente osserva l’economista
Bruno Amoroso:
«La moneta, da facilitatore neutro
dello scambio dei beni e veicolo di scambio, si camuffa essa stessa in
merce, con l’obiettivo unico dell’esproprio del lavoro, dei beni e dei
risparmi degli altri a fini di arricchimento».
Gli antropologi, studiando le società primitive, hanno rilevato come la
prima espressione di scambio di beni si fosse manifestata, soprattutto
all’interno del gruppo, attraverso il «dono»; un comportamento che
veniva spesso rivestito di ritualità anche religiose, densa di
significati. Oggetto del dono era sovente il superfluo, ma anche e
soprattutto il prodotto dell’attività individuale.
Attorno a queste consuetudini si è sviluppata una serie di relazioni
interpersonali. Il dono implicava una reciprocità che ha preparato il
sorgere di una vera e propria comunità economica basata su uno scambio
che, col passare del tempo, veniva ad essere regolato da un articolato
sistema di sempre più precise norme.
Il ruolo del dono, pur mutando forma e nome, è rimasto presente nelle società fino ai nostri giorni. L’economista Geminello Alvi, nella sua recente opera "Il capitalismo", afferma:
«Non v’è soluzione o rimedio al
capitalismo senza il riconoscimento del dono come un atto economico
[...] L’atto del dono permane costante archetipo dell’economia, riordino
di essa, in armonia cogli altri campi della vita e suo risanamento».
Fin dalle prime collettività primitive, l’oggetto dell’economia è dunque
sempre stato il bene o il servizio – l’attività umana rappresenta
anch’essa un bene – anche quando l’ingrandirsi della società e il
complicarsi delle tipologie di scambio hanno imposto l’utilizzo di
strumenti di intermediazione commerciale.
Il denaro ha poi assunto mille forme, adattandosi ai tempi e alle
esigenze dei popoli. Come ausilio negli scambi e nei pagamenti furono
utilizzate le pecore (da cui il termine latino pecunia) e il sale (da
cui la parola salario). In Inghilterra, attorno al 1100, furono
inventati i tallies: bastoncini di legno spessi due centimetri e mezzo.
Vi si incideva, tramite apposite tacche, il valore che rappresentavano;
poi venivano spezzati longitudinalmente in modo da conservare, in
ognuna delle due parti, traccia delle iscrizioni. Una sezione veniva
consegnata in pagamento, l’altra veniva conservata nel Tesoro dello
Stato, per poterne, in qualsiasi momento, affiancandoli, controllarne la
validità. Il termine tallies deriva dal verbo inglese to tally, che
significa coincidere.
Si trattava di un sistema macchinoso e scomodo – erano bacchette lunghe
dai 60 ai 120 centimetri – ma ciò nonostante fu utilizzato per più di
sette secoli: i tailles furono aboliti, con una legge del Parlamento,
solo nel 1783. La moneta che venne poi, la sterlina, emessa dalla
privata Banca d’Inghilterra, essendo gravata da interessi, indusse
diversi economisti a rimpiangere le vecchie e disagevoli barre di legno,
riconosciute «moneta sana e legittimamente emessa dallo Stato».
Ma ciò che circolò maggiormente, per praticità e diffusione, negli
ultimi due millenni sono state le monete: coniate in oro, come il romano
solidus, il bizantino bisante e l’arabo dinar, o in argento come il
persiano dirham e il denarius. Quest’ultimo fu emesso – con un nome che
volutamente si ricollegava con la moneta dell’Impero romano – da Carlo
Magno e fu il risultato di una riforma che introdusse un sistema di
conto che resistette per oltre un millennio. In Europa – ad eccezione
della Spagna che aveva adottato un altro sistema, di origine araba –
fino alla Rivoluzione francese; in Inghilterra addirittura fino al 1971.
L’unità di misura era la lira (o libbra, a indicarne anche il peso),
che si divideva in 20 soldi; il valore di ogni soldo era di 12 denari,
piccole monete di circa due grammi d’argento.
L’invenzione della cartamoneta è poi un fatto molto recente, e l’attuale
introduzione del denaro virtuale e delle carte di credito, già ne sta
prefigurando l’estinzione.
Il denaro dunque non ha mai smesso di essere un semplice strumento
dell’economia, peraltro estremamente mutevole e non sempre utilizzato.
Nel XVII secolo in molte zone d’Europa – prevalentemente agricole – era
ancora in vigore il baratto e solo eccezionalmente si faceva ricorso
alle monete. È opportuno poi considerare che, quando ce n’è stato
bisogno, i soldi sono stati inventati nei modi più diversi. L’unica
condizione è sempre stata quella di essere accettati dai cittadini che
dovevano incassarli o spenderli.
Quando in Italia, nel 1975, si era creata una penuria di spiccioli – cui
la zecca sopperì solo nel 1978 con un’abbondante conio di monete –
furono dapprima usati francobolli e gettoni telefonici (nei bar
addirittura caramelle), poi dei «miniassegni» emessi dalle banche. Ne
circolarono per un importo totale di oltre 200 miliardi di lire; molti
andarono distrutti, o finirono negli album dei collezionisti, procurando
al sistema bancario utili a nove zeri.
Quando negli anni del primo conflitto mondiale le esigenze degli
armamenti si scontrarono con le regole valutarie in vigore, vinse
l’«economia di guerra» e si stampò moneta in quantità spesso
esorbitante, rimandando al dopoguerra la soluzione dei problemi
inflazionistici che si sarebbero generati. Lo stato maggiore tedesco si
fregiò, in quella occasione, del motto «Geld spielt Keine rolle» (il
denaro non ha alcuna importanza). Il Direttore generale della Banca
d’Italia dichiarò nel 1917: «La Banca ha avuto coscienza della necessità
di Stato di dare alla produzione di biglietti un impulso
corrispondente a quello che hanno avuto le officine meccaniche con la
produzione di proiettili».
L’economista
Giacinto Auriti,
in polemica con la Banca d’Italia, provocatoriamente, nel 2000
sperimentò nel paese di Guardiagrele, in Abruzzo, il funzionamento di
una nuova moneta, il
SIMEC, di proprietà del portatore
e non dell’Istituto di emissione. I SIMEC, finché la Guardia di
Finanza non li sequestrò, furono utilizzati tranquillamente dalla
popolazione, dando nuovo impulso alle attività commerciali. Il processo
che ne seguì si concluse con una sentenza favorevole ad Auriti; la
provocazione era riuscita.
Dunque l’oggetto economico non può che essere il bene; al denaro deve
essere riservata l’esclusiva funzione di rappresentare il valore del
bene e, solo in questo senso, deve essere utilizzato.
Conseguentemente il denaro dovrebbe essere emesso strumentalmente dallo
Stato in una misura adeguata alla ricchezza della nazione. E per
ricchezza si intende il valore dei beni mobili ed immobili, dei beni
prodotti e di quelli in via di produzione.
Se un governo decide di costruire una grande opera pubblica, ad esempio
un’autostrada capace di velocizzare gli spostamenti e semplificare i
trasporti, non realizza forse un incremento della ricchezza nazionale?
Sarebbe logico allora che lo Stato emettesse moneta pari al valore del
nuovo bene con la quale pagare materiali e maestranze.
Perché invece, oggi, è costretto, per pagare il nuovo bene, a emettere
Titoli di Stato, quindi accendere un debito, che dovrà essere restituito
e sul quale dovrà anche pagare gli interessi? Scrisse
Ezra Pound:
«Dire
che uno Stato non può perseguire i propri scopi per mancanza di
denaro, è come dire che non si possono costruire strade per mancanza di
chilometri».
Inoltre, da quando l’emissione della
moneta è passata nelle mani delle banche, la quantità di denaro
circolante si è moltiplicata a dismisura. Un denaro che inoltre, col
passare dei decenni, ha perso ogni forma di garanzia. Si pensi alla
copertura aurea. Inizialmente le monete erano scambiate sulla base
della loro contropartita in oro, che era accettato come valore di
riferimento internazionale. Le banche di emissione delle varie nazioni
dovevano conservare nei loro caveau una quantità di lingotti
sufficiente a convertire una prefissata percentuale della cartamoneta
messa in circolazione.
Nel luglio del 1944, nella conferenza internazionale di Bretton Woods –
una cittadina del New Hampshire, negli USA – le potenze in guerra
contro l’Europa sottoscrissero un accordo che prevedeva un nuovo metro
di scambio internazionale: il dollaro. Dal «gold standard» si passava
al «dollar standard». Il dollaro, a sua volta, a differenza delle altre
valute del mondo, rimaneva agganciato all’oro col valore di 35 dollari
l’oncia.
Ciò nonostante, la Federal Reserve, dopo la Seconda Guerra Mondiale, non
sempre rispettò il rapporto di copertura previsto e il dollaro si vide
esposto a pericolose fragilità. Nell’agosto del 1971 il presidente
Richard Nixon si vide costretto, pur ribadendo per il dollaro il ruolo
di unica valuta di riferimento internazionale, a svincolare
definitivamente la moneta statunitense dalla copertura aurea.
Liberate da regole e controlli, le Banche Centrali hanno a questo punto
moltiplicato l’emissione di cartamoneta, non più facendo riferimento
alla quantità di beni esistenti, né alle garanzie disponibili, ma solo
rapportandosi alle necessità di liquido occorrenti al sistema monetario e
bancario per le proprie speculazioni.
Oltre al denaro stampato, infatti, va considerato il meccanismo della
«riserva frazionaria» grazie alla quale le banche si arrogano il diritto
di prestar soldi in misura enormemente superiore ai propri depositi.
Le banche sono arrivate a inventar soldi, e a prestarli, fino a 50
volte in più del denaro realmente disponibile. Poi ci sono i giochi di
valuta, per cui si fanno figurare momentaneamente in cassa somme di
denaro che praticamente non esistono. E infine, grazie alla
compravendita di pacchetti finanziari – come si è recentemente visto,
spesso pieni di carta straccia – e al gonfiamento artificioso di titoli
di borsa, la massa di denaro virtuale – che non corrisponde a
ricchezza reale – continua a moltiplicarsi.
Riferisce
Sergio Romano sul
Corriere della Sera del 27 ottobre 2011:
«I portafogli delle maggiori banche d’investimento americane sono
passati, da due trilioni di dollari vent’anni fa, a 22 trilioni di
dollari nella fase che ha immediatamente preceduto la crisi: quasi il
doppio del PIL americano».
Alla fine del 1999 i cosiddetti derivati circolanti nel mondo
ammontavano a 30.000 miliardi di dollari, pari al 285% del PIL mondiale;
solo dieci anni più tardi, alla fine del 2009, avevano raggiunto la
quota di 690.000 miliardi di dollari, cioè il 1057% del PIL mondiale.
Sir Josiah Stamp, direttore della Banca d’Inghilterra dal 1928 al 1941 – un testimone diretto e inconfutabile – scrisse:
«Il
moderno sistema bancario crea denaro dal nulla. Il processo è forse il
più sbalorditivo trucco da prestigiatore che sia mai stato escogitato.
Il sistema bancario fu concepito nel crimine e generato nel peccato. I
banchieri posseggono il mondo; se glielo si sottraesse, ma gli si
lasciasse ancora il potere di creare denaro, con un tratto di penna
riuscirebbero ad avere abbastanza denaro per ricomprarselo [...] Gli si
sottraesse invece il potere, tutti i grandi patrimoni come il mio
scomparirebbero, rendendo il mondo migliore e più felice. Ma se tu
accetti di continuare ad essere schiavo delle banche, lascia che le
banche continuino a creare denaro e controllare il credito».
Quantificare con esattezza la mole di denaro – reale e virtuale – oggi
circolante in tutto il globo è molto difficoltoso, ma grosso modo si è
calcolato che sia dieci o dodici volte superiore alla quantità di denaro
necessaria per acquistare tutti i beni esistenti al mondo.
E allora a cosa serve tutto questo del denaro?
Solo a dare forza al potere di chi ha in mano i cordoni della borsa, un
potere incondizionato sui popoli e sulle nazioni del mondo.
Questi Signori del denaro, gli epigoni della speculazione, come è oggi
di moda definirli, o più concretamente, come la chiamava Ezra Pound,
dell’usura, hanno passato tre fasi distinte nella loro scalata al
potere. La prima è stata la millenaria pratica di prestare a interesse
somme di denaro di cui si disponeva. Seconda fase è stata quella di
stampare in proprio i soldi da prestare a interesse. La terza è stata
quella di prestare soldi che non esistono nemmeno; che non sono stati
stampati da nessuna Banca Centrale. Questa è la fase attuale, quella del
denaro virtuale.
* * *
Mentre questi giochi finanziari da guerre stellari stanno affamando
popoli e schiavizzando nazioni, ogni volta che si suggeriscono strade
diverse da quelle imposte dal monetarismo, si contrappongono allarmi di
derive inflazionistiche che tendono a scoraggiare qualsiasi
riformatore.
Quando nel 1985 Bettino Craxi propose di varare la lira pesante (con un
rapporto da 1 a 1000) si disse che l’operazione avrebbe favorito un
incremento d’inflazione e l’idea fu bocciata. In questi giorni qualcuno
ha cominciato a proporre un ritorno alla lira e la risposta è giunta
immediatamente: scatterebbe un’inflazione, anche di diversi punti!
Innanzitutto nessuno si è premurato di sostanziare queste affermazioni
con spiegazioni economicamente convincenti. Inoltre nessuno si cura di
ricordare ciò che avvenne quando, dodici anni fa, dalla lira si volle
passare all’euro, operazione questa fortemente voluta dal sistema
bancario e finanziario internazionale. Quella scelta produsse
un’inflazione addirittura del 100%. Ciò che costava 10.000 lire in
pochissimo tempo arrivò a costare 10 euro, cioè 20.000 lire.
Come mai c’è chi ancora si professa orgoglioso di quella manovra –
Prodi, Ciampi, Amato e compagnia bella – e nessuno ricorda loro il
pesantissimo prezzo d’inflazione che gli italiani furono costretti a
pagare?
Mario Monti, prima di formare il nuovo governo, quello «tecnico», quello
delle banche, in una lettera dedicata a un Berlusconi premier
«euroscettico», pubblicata sul Corriere del 30 ottobre 2011, ha
spudoratamente indicato, tra i meriti dell’euro, l’averci garantito, per
dodici anni, un «bassissimo tasso d’inflazione».
Strano poi che la preoccupazione per le impennate inflazionistiche
scompaia completamente quando si tratta di tutelare la stabilità del
sistema bancario.
È notizia di questi mesi che i ministri finanziari, assieme ai vertici
delle Banche Centrali riuniti nel G20 di Washington, hanno deciso di
immettere nel sistema bancario una ingente quantità di nuovi dollari.
Oltre 3000 miliardi. Perché mai, allora, quando si tratta di economia
reale, si esclude ogni possibilità di emissione di nuova liquidità,
magari sotto forma di biglietti di Stato?
Siamo al paradosso finale o, meglio, al «dopo il danno la beffa».
L’attuale crisi è stata causata dal sistema finanziario – una precisa
responsabilità, universalmente riconosciuta – e non dall’economia reale.
Non sono colpevoli i lavoratori, gli imprenditori, gli studenti, i
contadini, i commercianti: non è responsabilità del popolo, ma delle
banche, della finanza internazionale – i cosiddetti «speculatori» –, del
potere mondialista che si articola nei suoi istituti tentacolari:
Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca dei Regolamenti
Internazionali, Trilateral, Bilderberg, Goldman Sachs, etc. Ebbene, le
decisioni dei concitati vertici che si susseguono in giro per il mondo
sono tutte nel segno di aiutare – e doviziosamente – il sistema
bancario, non i popoli. Anzi, ai popoli si chiede di pagare il conto.
Seguendo i diktat progressivi dei Signori del denaro, l’atteggiamento
del governo greco verso i dipendenti statali è stato emblematico; prima
licenziamenti di massa, poi, per chi rimane, decurtazione fino al 40%
degli stipendi e infine trattenuta alla fonte di tutti gli impegni con
il sistema bancario: mutui, finanziamenti, carte di credito, scoperti di
conto corrente. Praticamente il governo greco si è mobilitato per
tutelare gli «affari» delle banche, disinteressandosi della
sopravvivenza delle famiglie.
* * *
Un’altra domanda sorge spontanea, se si osserva la graduatoria dei
debiti pubblici delle nazioni del mondo. Il clamore di queste settimane
ha posto in primo piano la Grecia, la Spagna, l’Italia, gli Stati Uniti,
l’Irlanda e il Portogallo. Ma la nazione con il debito pubblico
percentualmente più alto rispetto al PIL è il Giappone, che supera
addirittura il 233%.
Ma del Giappone non si parla. Come mai?
La risposta la si può trovare osservando un’altra graduatoria, quella
riguardante le percentuali dei Titoli di Stato piazzati all’estero. Lì
troviamo al primo posto l’Irlanda, con un 85%, a seguire: il Portogallo
con un 75%, la Grecia col 70 %, gli USA con il 51%, la Spagna con il 46%
e l’Italia con il 44%.
E il Giappone? È in fondo alla graduatoria, con uno striminzito 4%.
Allora il problema non è la consistenza del debito pubblico o il mancato
pareggio di bilancio, ma di chi ha in mano i Titoli. Se le banche
internazionali o i risparmiatori nazionali. Allora il problema è di
sovranità finanziaria.
Quando è distribuito all’interno della nazione il debito pubblico può
essere anche un’opzione di politica economica non necessariamente
negativa. Scriveva l’economista francese Jean Francois Melon: «I debiti
dello Stato sono i debiti della mano destra verso la sinistra, e perciò
il corpo non ne è indebolito, se ha il corretto nutrimento e sa come
distribuirlo».
Per molti secoli in Italia il debito pubblico è stato assorbito dai
risparmiatori all’interno dei singoli Stati. Scrive Mauro Carboni:
«Nelle città-stato italiane la pianta del debito pubblico si sviluppò in
maniera rigogliosa, recando dividenti politici senza provocare
contraccolpi economici, dal momento che quasi ovunque il possesso dei
titoli era concentrato nelle mani dei residenti e l’onere del debito
attivava una circolazione di risorse del tutto interna alla comunità».
A questo riguardo è molto interessante osservare il grafico del debito
pubblico italiano negli ultimi quarant’anni. Con lievi oscillazioni il
valore si era stabilizzato sul 50% del PIL. A una certa data ha
cominciato a salire fino a sfiorare il 120%.
Quella data è il 1981.
E non è forse proprio il 1981 l’anno in cui Andreatta e Ciampi hanno
esentato la Banca d’Italia dall’acquisto dei Titoli di Stato ed è
cominciata la ricerca di acquirenti all’estero? Potrebbe essere dunque
corresponsabile dell’aumento del debito pubblico la diminuzione di
sovranità finanziaria? E non è proprio negli anni Ottanta che si è
verificato un aumento della pressione fiscale dal 31 al 40%?
Allora, forse, le cose non sono esattamente come ci vengono presentate.
L’oggetto della crisi finanziaria e della conseguente crisi economica è
sempre una Nazione succube di forti poteri esterni. Senza libertà e
indipendenza economica il popolo, al momento del bisogno, scopre che non
può scegliere soluzioni alternative. È la mancanza di sovranità
finanziaria che ci paralizza, che ci pone in una situazione di crisi ed
aggrava un debito pubblico già appesantito da decenni di dissennata
politica incompetente e clientelare. E all’origine della sovranità
finanziaria non può che esserci la sovranità monetaria.
Disse Henry Ford: «È un bene che la gente non sappia come funziona il
nostro sistema bancario e monetario, perché se lo sapesse credo che
prima di domani scoppierebbe una rivoluzione».
Sarebbe dunque bene che qualcuno si prendesse la briga di informare la
gente. Ma l’informazione è ancora blindata dal controllo che i poteri
forti hanno dei mass media.
Ciò nonostante, le informazioni «politicamente scorrette» sono sempre
più numerose e la possibilità che qualcuna di queste possa attraversare
le maglie della censura si fa sempre più grande. E in ciò si sta
dimostrando molto prezioso il ruolo di Internet.
Riportiamo alcuni esempi di recenti notizie che, appena uscite, sono
state sfumate, non è stato dedicato a loro né rilievo, né commenti, e
sono state archiviate in un limbo che ricorda molto da vicino il
ministero della Verità di orwelliana memoria.
Nel 1913, quando fu delegata ad operare come Banca Centrale americana la
privata Federal Reserve, tutti i parlamenti dei singoli Stati, come
d’uopo in una nazione federale, furono chiamati a ratificare il voto del
Senato.
Tutti approvarono, tranne il North Dakota, uno Stato al confine con il
Canada, tra il Montana e il Minnesota, che invece dette vita ad una
propria Banca di Stato. Si era formato un forte movimento d’opinione, la
Nonpartisan League, che vinse le elezioni ed impose la propria politica
ostile a Wall Street e ai banchieri privati.
La Banca del North Dakota è rimasta un istituto pubblico indipendente
dal Federal Reserve System, con una storia di tutto rispetto. Anche nel
1929, mentre la grande crisi fece traballare tutte le banche
statunitensi, continuò imperturbabile, senza particolari scossoni, la
propria attività. Inoltre, mentre tutte le banche del circuito federale
sono governate da personaggi nominati dall’«alto» e tutti provenienti
dai vivai di Wall Street, i tre massimi dirigenti della Banca del North
Dakota sono eletti dai cittadini. E questo, al popolo, giustamente,
piace e dà fiducia.
Inoltre si tratta di una Banca che concede finanziamenti a tasso
agevolato alle aziende, alle famiglie e agli studenti, ma chiude i
bilanci sempre in attivo e distribuisce gli utili ai cittadini sotto
forma di detrazioni fiscali.
Oggi, mentre la crisi negli USA schiaccia l’incremento del PIL ad uno
striminzito 1% e dilata la percentuale di disoccupazione oltre il 10%,
il North Dakota vanta un incremento del PIL a due cifre e ha una
disoccupazione sotto il 4%. Pura combinazione?
Altra notizia sfumata: quattro mesi fa il parlamento dello Utah, con una
forte maggioranza di 47 voti contro 26, ha deciso di coniare
direttamente monete d’oro e d’argento e di emettere biglietti di Stato.
Altra notizia sfumata: gli Stati di C
alifornia, Ohio e
Florida hanno
deciso di mettere allo studio una riforma del tipo del North Dakota:
Banca di Stato e sganciamento dal Federal Reserve System.
Altra notizia sfumata: in luglio lo Stato del Minnesota ha dichiarato
fallimento; tutti i dipendenti pubblici sono stati licenziati e tutti i
servizi statali e assistenziali sospesi in attesa che ad occuparsene
arrivassero altre autorità con nuovi fondi.
Altra notizia sfumata, anzi del tutto ignorata: nella graduatoria dei
debiti pubblici del mondo, nell’ultimissima posizione – solo il 3%
rispetto al PIL – c’è la Libia e la Central Bank of Libya è di completa
proprietà dello Stato. Evidentemente l’impossibilità di agire sulla
Libia, attraverso gli abituali ricatti monetari, aiuta a porre nella
giusta luce gli otto mesi di bombardamenti della NATO appena conclusi.
Altra notizia sfumata: il presidente
Hugo Chávez ha chiesto il rimpatrio
delle 100 tonnellate di oro che il Venezuela aveva in deposito nel
caveau della
Banca d’Inghilterra.
La vicenda nasce alla fine degli anni Ottanta, al tempo delle presidenze
di Jaime Lusinchi e di Carlos Andrés Pérez, quando il Venezuela chiese
ed ottenne un prestito dal Fondo Monetario Internazionale e gli fu
imposto di depositare, in garanzia, 211 tonnellate d’oro nei caveau
delle Banche Centrali d’Inghilterra, Svizzera, USA, Francia e Panama.
Saldato da molti anni il debito – grazie al petrolio e all’oro di cui
quel paese americano è ricco – Chávez ha, in un primo momento, deciso di
lasciare in custodia – regolarmente retribuita – l’oro nei caveau dove
si trovava. Oggi, probabilmente in considerazione della turbolenza dei
mercati e della gravità della crisi finanziaria internazionale, ne ha
invece chiesto la restituzione. Ma la richiesta di Chávez a Londra ha
creato un forte imbarazzo. Per le proprie speculazioni, la Banca
sembrerebbe abbia venduto non solo il proprio oro, ma anche quello del
Venezuela che aveva in custodia.
Ora si stanno agitando; devono trovare un modo per uscire d’impaccio, ma
l’acquisto – in una volta sola – di 100 tonnellate d’oro sul mercato
internazionale, farebbe ulteriormente gonfiare le quotazioni che in
questo momento hanno già toccato i massimi storici. Si sta diffondendo
il sospetto che Londra abbia messo gli occhi sui depositi aurei della
Libia di Gheddafi: sono giuste giuste 140 tonnellate...
Questa storia, oltre ad appartenere alla categoria delle notizie
sfumate, è una storia preoccupante. Infatti gran parte delle 2.500
tonnellate dell’oro della Banca d’Italia non è a Roma, ma a Londra e
negli Stati Uniti, a Fort Knox. Sembra che l’ultima ispezione in quei
caveau risalga a molti anni fa. Ci può essere il rischio che l’oro di
Bankitalia abbia fatto la fine.
Mario Consoli su "Rinascita" (13 Agosto 2012)