domenica 19 giugno 2011

La delocalizzazione in Cina e il suicidio industriale dell’occidente

 Ho nuovamente l’onore di pubblicare un post scritto da un italiano che vive e lavora inCina: Gaolin. Chi meglio di lui può spiegarci in modo realistico la vera situazione dell’economia cinese e le drammatiche evoluzioni a sfavore dell’economie occidentali?? Inoltre il buon Gaolin approfitta della piovosa giornata e trova l’ispirazione con un post “dei suoi”.
Comunicazione di servizio: l’autore mi riferisce che IntermarketAndMore ora è visibile inCina ed è uno dei pochi visibili. Chissà se è merito anche proprio di Gaolin…
Lascio la parola all’amico Giorgio, ringraziandolo nuovamente.
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Il titolo dell’articolo inizialmente prevedeva un termine più soft:  declino al posto disuicidio.
Questo cambio, effettuato in corso di stesura, rappresenta però molto meglio la situazione in corso, il cui sviluppo procede con costanza, in una sorta di indifferenza collettiva che sconcerta non poco gli addetti ai lavori, ovvero gli operatori che direttamente sono coinvolti in questi processi
Il fenomeno della delocalizzazione produttiva “normale” è ben spiegato in Wikipedia.Quello che da nessuna parte viene spiegato invece è che la delocalizzazione in Cina è stato ed è qualcosa di profondamente diverso dalla suddetta definizione.
Proprio così, la delocalizzazione verso la Cina ha un fondamentale valore aggiunto in più in quanto, oltre alla produzione viene di solito delocalizzato anche il know-how che la riguarda. Questo know-how può essere poca cosa, come accadeva una volta ma oggi quasi sempre rappresenta il valore vero della delocalizzazione.
Della delocalizzazione dall’occidente verso la Cina mi ero impegnato a scrivere qualcosa per I&M  già da un po’ di tempo. Finora però la giusta ispirazione non era mai arrivata, visto che lo scrivere non è il mio mestiere. In questi giorni mi trovo in Cina, che è un luogo dove invece è facile, per un motivo o per l’altro, avere gli spunti e gli stimoli necessari per sviluppare un discorso sul tema.
Addirittura questa volta non ho avuto neppure il bisogno di atterrare in questo immenso e straordinario paese per trovare la giusta motivazione. Infatti, leggendo durante il volo un quotidiano, mi è cascato l’occhio su un trafiletto in cui si richiamava un articolo del Financial Times, che descriveva la polemica e i dissapori  in corso fra i manager svedesi della VOLVOe i nuovi proprietari cinesi, la casa automobilistica GEELY, divenuti tali lo scorso mese di marzo 2010.
Questi ultimi vogliono costruire in Cina non una ma tre fabbriche d’auto con marchio VOLVO. Una per ogni municipalità che ha concorso a conferire i capitali necessari per l’acquisto della casa + marchio.
Non so cosa i cinesi possano aver detto o promesso ai manager/politici/sindacati svedesi al momento dell’acquisto, certo però è che i cinesi non possono averla acquistata per lasciarla vegetare in terra scandinava, sovvenzionandola continuamente come successo finora.
A questo proposito inserisco in questo articolo un mio commento, datato 23 aprile 2010,inviato a uno dei pochissimi blog che, nei giorni della divulgazione della suddetta cessione, pubblicò un lodevole articolo sulla vicenda.  Allora la gran parte della stampa e dei media praticamente relegarono la notizia come una di quelle di terz’ordine. Il  commento di seguito riportato è privo dell’articolo di riferimento ma credo che ne possa  essere compreso  lo spirito ugualmente.
Il commento inviato fu:
Nell’articolo sono molto ben sintetizzati alcuni aspetti della difficile competizione in atto nel settore automotive. Mi pare però che quello più importante della cessione ai cinesi della casa VOLVO non sia stato ben colto.
Ovvero, perché i cinesi, pur essendo ben coscienti che attualmente la VOLVO è una società che drena risorse finanziarie senza possibilità di ritorni, se la sono comprata lo stesso?


Non certo per la speranza/volontà di rilanciarla così come sta ma per il know-how di questa azienda che, nonostante non più di estrema avanguardia come ai bei tempi, è certamente di alto livello. Cosa vuol dire ciò?
Vuol dire che fra non molto, 2-3 anni al massimo, le tecnologie di casa VOLVO ritenute convenienti saranno introdotte nelle nuove fabbriche cinesi della GEELY e poi che tutti i mercati, in particolare quello europeo, si troveranno ad avere un competitor che avrà una rete commerciale pronta a vendere auto Made in China, aventi un rapporto qualità/prezzo inarrivabile per tutti gli altri.
I cinesi si muovono seguendo strategie di lungo termine. Le loro industrie sanno di essere protette e accompagnate nel loro sviluppo da una dirigenza politica molto competente e con una chiara visione dello sviluppo futuro della Cina.
Noi occidentali invece siamo ormai asserviti agli interessi delle varie oligarchie, in particolare quella finanziaria, alle quali non importa un fico secco del declino industriale che stiamo vivendo.
La cessione della VOLVO dovrebbe essere un capitolo da celebrare come giornata di lutto internazionale, per l’occidente ovviamente.
Invece l’argomento  passa come una evento trascurabile, da relegare senza evidenze qua e là nelle pagine di qualche giornale, non in grado di suscitare molti interessi e commenti.
Di questo nostro atteggiamento, in generale poco attento all’importanza di questi accadimenti, i cinesi sono ben consapevoli e se ne approfittano.  E come se ne approfittano
Visto lo scoppio della suddetta polemica, mi pare di essere stato un facile profeta.
Purtroppo anche questa vicenda, marcata VOLVO-GEELY o meglio GEELY-VOLVO, altro non è che l’ennesimo atto di questo dissennato, scellerato, sciagurato, pazzesco e chi ne ha più ne metta, dramma in corso che riguarda il finora inarrestabile processo di esproprio o donazione del know-how occidentale a favore dellaCina.
Un esempio di come i formidabili cinesi abbiamo magistralmente utilizzato questo processo, per attuare uno dei più recenti impetuosi processi di sviluppo industriale è stato benissimo sintetizzato in uno spot pubblicitario, che ripetutamente appariva su uno schermo di un espositore alla fiera AUTOMECHANIKA di Shanghai, svoltasi la scorsa settimana e dedicata al settore della componentistica per l’industria dell’auto.
La parte iniziale di questo spot riportava il titolo di un giornale USA del 2005, che citava le previsioni degli “esperti americani”, riguardo lo sviluppo del mercato interno dell’auto inCina. La previsione erano che entro il 2020 il mercato interno cinese di vendite auto avrebbe superato quello degli USA.
Subito dopo si diceva che  nel 2009 la Cina già aveva superato gli USA.
Per tutti coloro che non lo sanno ancora, ovvero per la quasi totalità degli occidentali, aggiungo che nel 2010 le vendite di auto in Cina raggiungeranno i 18 milioni di auto, circa 1,5 volte il mercato USA  attuale e 5 volte quello di 6 anni fa.
Contemporaneamente tutta l’industria dell’auto cinese si sta attrezzando per cominciare il processo di penetrazione massiccia nel mercato mondiale dell’auto,  con la solita aggressività e che necessiterà solo di qualche annetto per far tremare i polsi ai competitor allocati nello spensierato occidente, che ancora si ostina a non capire cosa sta succedendo in Cina.
Già, da noi si crede ancora che le auto Made in China siano delle pericolose carrette. La realtà non è così. Ormai la migliore produzione cinese è già oggi equiparabile a quella di media/bassa  gamma occidentale. Anche perché essa utilizza la stessa componentistica, che i nostri costruttori acquistano ormai a man bassa dalla Cina, per ridurre i costi e che loro stessi hanno ben contribuito a far raggiungere il necessario livello di qualità.
Personalmente non ce l’ho con i cinesi, tutt’altro. Essi sono degli infaticabili e capaci lavoratori, sia di braccia che di mente, certamente degni di aspirare a migliorare il loro status e anche di diventare, molto prima di quanto quasi tutti pensano, la prossima No.1 potenza economica globale. Con i cinesi infatti si può lavorare benissimo, pur essendoci non poche differenze di mentalità, di cultura e di modo di ragionare.
Quello che veramente fa rabbia e sconcerta è che siamo noi occidentali a stendere ogni giorno un po’ più in avanti il tappeto di velluto lungo il quale scorre il processo di delocalizzazione dall’occidente verso la Cina.
Pare incredibile come pochissimi riescano a percepire che a una nazione di oltre 1.300.000.000 individui, gestita con criteri imprenditoriali, non è possibile lasciare la possibilità di agire nel solo suo esclusivo interesse e a discapito di tutti gli altri.
Insomma se alla Cina va più che bene applicare l’equazione:
(N posti di lavoro in più in Cina) -  (N posti di lavoro in meno altrove) = 0
a tutti gli altri, chi più chi meno, procura danni gravissimi e perfino irreparabili.
In fondo basterebbe avere ben presente che la suddetta equazione è la naturale conseguenza di una gestione della parità monetaria del CNY, da parte del governo cinese, che rende il paese ipercompetitivo contro chiunque e in qualunque settore produttivo, compresi quelli di assoluta avanguardia, è solo questione di tempo.
Quando il governo cinese decide di spingere il proprio sistema industriale verso un settore che ritiene di sviluppare, ci mette poco in queste condizioni  a far diventare la Cina leader mondiale assoluto, se non praticamente monopolista.
Per questa volta basta così.

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