lunedì 24 ottobre 2011

Lavoro: schiavi e padroni



Lorenzo Chialastri

La società moderna ha visto strutturarsi al suo interno due concezioni opposte, entrambi però in difetto.
La prima visione pone la libertà (individuale/economica) al primo posto e sacrifica l'uguaglianza, divenendo liberismo, la seconda , sacrifica la libertà in nome dell'uguaglianza e sconfina nel comunismo.
Negli ultimi due secoli, la proiezione di queste due concezioni nei rapporti umani lavorativi non può che aver proposto soluzioni altrettanto in difetto o monche. Il confronto scontro, tra lavoro e capitale, non ha avuto pertanto a tutt'oggi risoluzione se non a vantaggio del capitale.
Tuttavia per motivi vari, non ultimo l'imborghesimento interiore della classe lavoratrice che sarebbe dovuta essere da supporto rivoluzionario, la supremazia avanzante del capitalista non ha rafforzato la lotta di classe ma ha coinciso piuttosto con il suo annichilimento.
L'oligarchia economica dominante, plutocrazia, fatto tesoro del monito di Rousseau: "Quando il povero non ha più nulla da mangiare , mangia il ricco", s'è industriata per non essere divorata.
Non basta , d'altro canto, come non è bastato nei regimi comunisti dire che i mezzi di produzione, cosi' come la fabbrica, sono di proprietà dello Stato per sentirsi partecipi del processo produttivo.

Cambiano i nomi, padrone privato, padrone pubblico, ma il risultato per il lavoratore è lo stesso, il rapporto di forza, dalla sua posizione angolare, rimane quello tra sfruttati e sfruttatori.
Per chi non è d'accordo non resta che l'ultima e unica arma: lo sciopero. Lo sciopero ormai, oltre che normato da rigide leggi, è difficile da attuarsi sia perché i lavoratori sono divisi da differenti contratti capestro ( ideati ad arte in nome della flessibilità), sia perché in molte aziende il sindacato è assente, latitante, quand'anche narcotizzato o ammaestrato.
Ai nostri tempi la figura classica del padrone è sfumata, s'è impersonalizzata, non più capitani d'industria, latifondisti, ma sempre più spesso holding finanziarie, multinazionali e banche, sempre meno coinvolte nell'azienda da un punto di vista umano, limitando di fatto il proprio interessamento al solo tornaconto economico. Questo in un mercato sempre più libero e globale, dove le regole di tutela si affievoliscono, la responsabilità soggettiva del capitalista si vaporizza a ovvio svantaggio del lavoratore.
Arrivati a questo punto, la lotta di classe, reazione naturale nell'era della rivoluzione industriale, oltre ad essere inadeguata è anacronistica.

Tornando alle due concezioni opposte, quali il liberismo e il comunismo, vogliamo sottolineare che se la prima dice che la giustizia è nella libertà ( non si può avere giustizia senza libertà: libertà economica e libertà di proprietà, in primis, libertà civile per finire), la seconda afferma che la vera libertà dell'uomo è nell'uguaglianza.
Il comunismo, con Marx, afferma che le disuguaglianze tra gli uomini risiedono nella ricchezza economica, quindi in primo grado nella proprietà privata. Questo in una società liberista, dove tutto è ridotto all'avere, è senz'altro vero. La proprietà privata e la divisione del lavoro, sono ragioni d'ingiustizia. Se la libertà dell'uomo si concretizza nella libertà d'accumulo incondizionato, magari benedetto anche da Dio ( vedi "Etica protestante e spirito del capitalismo" di Weber) la proprietà privata, insieme all'artificioso arricchimento della finanza, sono motivo di disuguaglianza.
D'altronde non è pensabile neanche che si possa risolvere il problema appiattendo tutti gli uomini vestendoli di una stessa casacca e negando la proprietà privata: in nome dell'uguaglianza produciamo un'altra ingiustizia.
Non ci rimane che partire dall'irrinunciabile presupposto filosofico, opposto all'individualismo delle ideologie liberali, che pone l'uomo, come fece Marx, in un contesto collettivo, ove soltanto nella società consegue la sua individualità, si conferisce alla società stessa un " importantissimo valore morale" pur garantendo la proprietà privata, ma limitando questa al fine di " non essere disintegratrice della personalità fisica e morale".
Da qui si apre uno spiraglio che porta a quella terza via, che piaccia no, tracciata dal fascismo e che rimane percorribile ed attuale.
Senza approfondire l'aspetto ideologico del fascismo, coerentemente al tema trattato, vogliamo proiettare come all'inizio avevamo fatto per il liberismo e il comunismo, questa concezione sul piano dei rapporti umani/lavorativi.

Qual è il principio di ragione che porta il lavoratore sempre a sottostare al padrone o al sistema di potere economico da lui rappresentato? Nessuno, se non un arbitrario atto di forza codificato in legge dalla giurisprudenza, il fascismo con la socializzazione interrompe questa ingiustizia.
Come insegna il sociologo Michels, un rapporto di partecipazione reale non può che avvenire tra uguali. Noi non ci accontentiamo che il lavoratore partecipi con il datore di lavoro, sarebbe semplice collaborazione, noi vogliamo che sia parte essenziale e gestionale del processo di cui fa parte. Questo non potrà che essere fattibile solo quando le parti, lavoro e capitale, braccia e denaro, avranno stesso riconoscimento giuridico e sociale, abbiano in altri termini pari dignità. Non il lavoro a servizio del capitale, ma il capitale a servizio del lavoro, non l'uomo a servizio dell'utile, ma l'utile al servizio dell'uomo.
Parlare di pari dignità tra lavoro e capitale è la chiave di volta per risolvere il problema che non ha avuto a tutt'oggi soluzione.
Certo parlare di pari dignità significa rivoluzionare il senso più profondo di questa società dove tutto è proteso ad un fine utilitaristico e dove il danaro , adottato come unico parametro di riferimento, è sublimato a nuovo ethos, ma sta a noi raccogliere la sfida.
Porre sullo stesso piano chi porta le proprie capacità professionali (manuali o intellettive), e chi ci mette i soldi oltre ad essere la via da battere è un dovere sociale per tutti quelli non disposti ad appiattire l'uomo su un piano esclusivamente economico e/o consumistico.
E' questa la visione dell'umanesimo del lavoro, la concezione antropocentrica che fu tracciata da Gentile e rafforzata da Spirito.
Chiamatela pure socializzazione, o corporativismo integrale, o comunismo con diritto alla proprietà, chiamatela, chiamiamola pure come volete, basta che sia la nostra bandiera per l'emancipazione più alta dell'uomo e del suo lavoro.


Lorenzo Chialastri - Cave (Roma

http://www.confederazioneculta.org/_schiavi_e_padroni.html

domenica 23 ottobre 2011

SOCIALIZZAZIONE DELLE IMPRESE DECRETO LEGISLATIVO DEL 12 FEBBRAIO 1944, N.375,



(dalla G.U d’Italia, 30 Giugno 1944, n. 151):


DECRETO LEGISLATIVO DEL DUCE 12 Febbraio 1944 - XXII, n. 375.
Socializzazione delle imprese

IL DUCE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Vista la Carta del Lavoro;
Vista la “Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economia italiana approvata dal Consiglio dei Ministri del 13 Gennaio 1944;
Sentito il Consiglio dei Ministri;
Su proposta del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le finanze e con il Ministro per la Giustizia

Decreta:
Titolo 1. – DELLA SOCIALIZZAZIONE DELLA IMPRESA

Art. 1. (Imprese socializzate) - Le imprese di proprietà privata che dalla data del 1° gennaio 1944 abbiano almeno un milione di capitale o impieghino almeno cento lavoratori, sono socializzate.
Sono altresì socializzate tutte le imprese di proprietà dello Stato, delle Province e dei Comuni nonché ogni altra impresa a carattere pubblico.
Alla gestione della impresa socializzata prende parte diretta il lavoro.
L’ordinamento dell’impresa socializzata è disciplinato dal presente decreto e relative norme di attuazione, dallo statuto di ciascuna impresa, dalle norme del Codice Civile e dalle leggi speciali in quanto non contrastino con il presente decreto.
Art. 2. (Organi delle imprese socializzate) - Gli organi delle imprese socializzate sono:
a) per le società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata: il capo dell’impresa; l’assemblea; il consiglio di gestione; il collegio dei sindaci:
b) per le altre società e per le imprese individuali: il capo dell’impresa e il consiglio di gestione:
c) per le imprese di proprietà dello Stato e per le imprese a carattere pubblico che non abbiano forma di società: il capo dell’impresa; il consiglio di gestione; il collegio dei revisori.
Sezione 1. - Amministrazione delle Imprese socializzate.
Capo I (Organi delle imprese socializzate) - Amministrazione delle imprese di proprietà privata aventi forma di società.
Art. 3. (Organi collegiali delle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata) - Nelle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, fanno parte degli organi collegiali, membri eletti dai lavoratori dell’impresa: operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi.
Art. 4. (Assemblea, consiglio di gestione, collegio sindacale) - All’assemblea partecipano i rappresentanti dei lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, con un numero di voti pari a quello dei rappresentanti del capitale intervenuto.
Il consiglio di gestione, nominato dall’assemblea, è formato per metà di membri scelti fra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi.
Il collegio sindacale, pure nominato dall’assemblea, è formato per metà di membri designati dai lavoratori e per metà di membri designati dai soci. Il presidente del Collegio sindacale è scelto fra gli iscritti all’albo dei revisori dei conti.
Art. 5. (Consiglio di gestione delle società che non sono per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata) - Nelle società non contemplate nel precedente articolo £ il consiglio di gestione è formato da un numero di soci che verrà stabilito dallo statuto della società, e di un egual numero di membri eletti fra i lavoratori dell’impresa, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi.
Art. 6. (Poteri del consiglio di gestione) - Il consiglio di gestione delle imprese private aventi forma di società, sulla base di un periodico e sistematico esame degli elementi tecnici, economici e finanziari della gestione:
a) delibera su tutte le questioni relative alla vita dell’impresa, all’indirizzo ed allo svolgimento della produzione nel quadro del piano nazionale stabilito dai competenti organi di Stato;
b) esprime il proprio parere su ogni questione inerente alla disciplina ed alla tutela del lavoro nella impresa;
c) esercita in genere nell’impresa tutti i poteri attribuitigli dallo statuto e quelli previsti dalle leggi vigenti per gli amministratori, ove non siano in contrasto con le disposizioni del presente provvedimento;
d) redige il bilancio dell’impresa e propone la ripartizione degli utili ai sensi delle disposizioni del presente decreto e del Codice Civile.
Art. 7 (Votazioni) - Nelle votazioni tanto dell’assemblea quanto del consiglio di gestione, prevale, in caso di parità di voti, il voto del capo dell’impresa che di diritto presiede i predetti organi sociali.
Art. 8 (Cauzione dei membri del consiglio di gestione) - I membri dei consigli di gestione eletti dai lavoratori sono dispensati dall’obbligo di prestare cauzione.
Art. 9 (Capo dell’impresa) - Nelle società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata il capo dell’impresa è eletto dall’assemblea fra persone di provata capacità tecnica o amministrativa nell’impresa o fuori.
Nelle altre imprese aventi forma di società il capo dell’impresa è nominato fra soci con le modalità previste dagli atti costitutivi, dagli statuti e dai regolamenti delle società stesse.
Art. 10. (Poteri del capo dell’impresa) - Il capo dell’impresa dirige e rappresenta a tutti gli effetti l’impresa stessa; convoca e presiede l’assemblea, nelle imprese in cui esiste; convoca e presiede altresì il consiglio di gestione.
Egli ha la responsabilità ed i doveri di cui ai successivi articoli 22 e seguenti e tutti i poteri riconosciutigli dallo statuto, nonché quelli previsti dalle leggi vigenti, ove non contrastino con le disposizioni del presente decreto.
Capo II - Amministrazione delle imprese di proprietà privata individuale.
Art. 11. (Consiglio di gestione) - Nelle imprese individuali viene costituito un consiglio di gestione composto di almeno tre membri eletti, secondo il regolamento dell’impresa, dai lavoratori: operai, impiegati amministrativi, impiegati tecnici.
Art. 12. (Capo dell’impresa - Poteri del consiglio di gestione) - Nelle imprese individuali l’imprenditore, il quale assume la figura giuridica di capo dell’impresa con la responsabilità e i doveri di cui ai successivi articoli 22 e seguenti, è coadiuvato nella gestione della impresa stessa dal consiglio di gestione.
L’imprenditore, capo dell’impresa, deve riunire periodicamente e almeno una volta al mese il consiglio, per sottoporgli le questioni relative alla vita produttiva dell’impresa, ed ogni anno alla chiusura della gestione per l’approvazione del bilancio e il riparto degli utili.
Capo III - Amministrazione delle imprese di proprietà dello Stato.
Art. 13. (Capo dell’impresa) - Il capo dell’impresa di proprietà dello Stato è nominato con decreto del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro delle Finanze su designazione dell’Istituto di Gestione e Finanziamento, tra i membri del consiglio di gestione dell’impresa o fra altri elementi dell’impresa stessa o di imprese del medesimo settore produttivo, che diano speciali garanzie di comprovata capacità tecnica o amministrativa.
Il capo dell’impresa ha la responsabilità ed i doveri di cui ai successivi art. 22 e seguenti ed i poteri che saranno determinati dallo statuto di ogni impresa.
Art. 14. (Consiglio di gestione) - Il consiglio di gestione è presieduto dal capo dell’impresa ed è composto di rappresentanti eletti dalle varie categorie dei lavoratori dell’impresa: operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, nonché di almeno un rappresentante proposto dall’Istituto di Gestione e Finanziamento e nominato dal Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le Finanze.
Le modalità di elezione ed il numero dei membri del consiglio saranno determinati dallo statuto dell’impresa.
Nessuno speciale compenso, salvo il rimborso delle spese, è dovuto ai membri del consiglio di gestione per tale loro attività.
Art. 15. (Poteri del consiglio di gestione) - Per i poteri del consiglio di gestione delle imprese di proprietà dello Stato, valgono le norme contenute nel precedente articolo 7.
Art. 16. (Costituzione del collegio dei revisori) - Il collegio dei revisori delle imprese di proprietà dello Stato è costituito con decreto del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le Finanze, su designazione dell’Istituto di Gestione e Finanziamento.
Il compenso dei revisori è determinato dall’Istituto di Gestione e Finanziamento
Art. 17. (Approvazione del bilancio e riparto degli utili; deliberazioni eccedenti l’ordinaria amministrazione) - Nelle imprese di proprietà dello Stato il bilancio e il progetto di riparto degli utili sono proposti dal consiglio di gestione ed approvati dall’istituto di Gestione e Finanziamento.
Gli aumenti, le riduzioni di capitale, le fusioni, le concentrazioni, nonché lo scioglimento e le liquidazioni delle imprese di proprietà dello Stato sono proposte dall’Istituto di Gestione e Finanziamento, sentito il consiglio di gestione delle imprese interessate e approvati dal Ministro dell’Economia Corporativa di concerto con il Ministro delle Finanze e con gli altri Ministri interessati.
Capo IV - Amministrazione delle imprese a carattere pubblico
Art. 18. (Amministrazione delle imprese a carattere pubblico) - L’Amministrazione delle imprese a carattere pubblico sarà regolata dalle norme di cui al capo I di questa sezione, quando le imprese stesse siano costituite in forma di società. In tutti gli altri casi si applicheranno le norme di cui al capo terzo.
Capo V - Disposizioni comuni ai capi precedenti.
Art. 19. (Statuti e regolamenti delle imprese di proprietà privata) - Tutte le imprese private aventi forma di società dovranno provvedere ad adeguare gli statuti alle norme contenute nel presente decreto; le imprese private individuali dovranno anch’esse redigere uno statuto.
Gli statuti saranno sottoposti all’approvazione del Ministero dell’Economia Corporativa il quale li trasmetterà al Tribunale competente per territorio per la trascrizione nel registro delle imprese previsto dal codice civile.
Il Ministro per L’economia Corporativa stabilirà con propri decreti il termine entro il quale le diverse categorie di imprese dovranno presentare i nuovi statuti all’approvazione.
Art. 20. (Atti costitutivi e statuti delle imprese di proprietà dello Stato e delle imprese a carattere pubblico) - Gli ordinamenti, gli atti costitutivi e gli statuti delle imprese di proprietà dello Stato e delle imprese a carattere pubblico, come pure ogni loro modificazione, sono approvati con decreto del Ministero per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le Finanze e con gli altri Ministri interessati.
Art. 21. (Modalità di elezione dei rappresentanti dei lavoratori) - I rappresentanti dei lavoratori chiamati a far parte degli organi delle imprese socializzate, sono eletti con votazione segreta da tutti i lavoratori dell’impresa, operai, impiegati amministrativi, impiegati tecnici, fra i lavoratori delle singole categorie che abbiano almeno 25 anni di età ed almeno 5 anni di appartenenza all’impresa e che abbiano inoltre dimostrato fedeltà al lavoro e provata capacità tecnica e amministrativa.
Sezione II. - Responsabilità del capo dell’impresa e degli amministratori.
Art. 22. (Responsabilità del capo dell’impresa) - Il capo dell’impresa è personalmente responsabile di fronte allo Stato dell’andamento della produzione dell’impresa e può essere rimosso e sostituito a norma delle disposizioni di cui agli articoli seguenti, oltre che nei casi previsti dalle vigenti Leggi, quando la sua attività non risponda alle esigenze dei piani generali della produzione e alle direttive della politica sociale dello Stato.
Art. 23. (Sostituzione del capo dell’impresa di proprietà dello stato) - Nelle imprese di proprietà dello Stato la sostituzione del capo dell’impresa è disposta dal Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le Finanze e con gli altri Ministri interessati, d’ufficio o su proposta dell’Istituto di Gestione e Finanziamento o del consiglio di gestione dell’impresa o dei revisori, premessi gli opportuni accertamenti.
Art. 24. (Sostituzione del capo dell’impresa privata avente forma di società) - Nelle società per azioni e a responsabilità limitata ed in accomandita per azioni la sostituzione del capo dell’impresa è deliberata dall’assemblea.
Nelle imprese aventi forma di società, la sostituzione del capo dell’impresa è regolata dagli statuti, e può, in ogni caso, essere promossa dal Consiglio di Gestione con la stessa procedura prevista dall’art. 25 e seguenti per le imprese private ed individuali.
E’ in ogni caso facoltà del Ministro per l’Economia Corporativa di provvedere dapprima alla temporanea sostituzione del capo dell’impresa quanto egli dimostri di non possedere i necessari requisiti inerenti alle sue funzioni o manchi ai doveri indicati all’art.22.
Art. 25. (Sostituzione del capo della impresa privata individuata) - Nelle imprese private individuali l’imprenditore capo dell’impresa può essere sostituito soltanto in seguito a sentenza della Magistratura del Lavoro che ne dichiari la responsabilità.
L’azione per la dichiarazione di responsabilità può essere promossa dal consiglio di gestione dell’impresa, dall’Istituto di Gestione e Finanziamento, qualora interessato nell’impresa, e dal Ministro per l’Economia Corporativa, mediante istanza al Procuratore di stato presso la Corte d’Appello competente per territorio.
Art. 26. (Procedura dinanzi alla Magistratura del Lavoro) - La Magistratura del Lavoro, sentito l’imprenditore, il Pubblico Ministero, il consiglio di gestione dell’impresa, il Ministro per l’Economia Corporativa e l’Istituto di Gestione e Finanziamento in quanto interessato, premessi gli opportuni accertamenti, dichiara con sentenza la responsabilità dell’imprenditore.
Contro la sentenza è ammesso ricorso per cassazione a norma dell’articolo 426 del Cod. Pr. Civ.
Art. 27. (Sanzioni contro il capo dell’impresa) - A seguito della sentenza che dichiara la responsabilità dell’imprenditore, il Ministro per L’Economia Corporativa adotterà quei provvedimenti amministrativi che riterrà del caso affidando, se occorre, la gestione dell’impresa ad una cooperativa da costituirsi tra i dipendenti dell’impresa medesima con l’osservanza delle norme da stabilirsi caso per caso.
Art. 28. (Misure cautelari) - Pendente l’azione di cui agli articoli precedenti il Ministro per l’Economia Corporativa può sospendere, con proprio decreto, l’imprenditore, capo dell’impresa, dalla sua attività e nominare un commissario per la temporanea amministrazione dell’impresa.
Art. 29. (Responsabilità dei membri del consiglio di gestione) - Qualora il consiglio di gestione dell’impresa dimostri di non possedere sufficiente senso di responsabilità nell’assolvimento dei compiti affidatigli per l’adeguamento dell’attività dell’impresa alle esigenze dei piani di produzione e alla politica sociale della Repubblica, il Ministro per l’Economia Corporativa, di concerto con il Ministro per le Finanze, puo disporre, premessi gli opportuni accertamenti, lo scioglimento del consiglio e la nomina di un Commissario per la temporanea gestione dell’impresa.
L’intervento del Ministro per l’Economia Corporativa può avvenire d’ufficio o su istanza dell’Istituto di Gestione e Finanziamento, se interessato, o dal capo dell’impresa o dell’assemblea o dei sindaci, ovvero dei revisori.
Art. 30. (Sanzioni penali) - Al capo dell’impresa ed ai membri del consiglio di gestione di essa sono applicabili tutte le sanzioni penali previste dalle leggi per gli imprenditori, soci ed amministratori delle società commerciali.
Titolo II. - DEL PASSAGGIO DELLE IMPRESE DI PROPRIETA' DELLO STATO
Art. 31. Determinazione delle imprese da passare in proprietà dello Stato- La proprietà di imprese che interessino settori chiave per la indipendenza politica ed economica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materie prime, di energia o di servizi necessari al regolare svolgimento della vita sociale, può essere assunta dallo Stato a mezzo dell’I.Ge.Fi. secondo le norme del presente decreto.
Quando l’impresa comprenda aziende aventi attività produttive diverse, lo stato può assumere la proprietà di parte soltanto dell’impresa stessa.
Lo Stato può inoltre partecipare al capitale di imprese private.
Art. 32. (Procedura del passaggio delle imprese in proprietà dello Stato) - Con decreto del Duce della Repubblica Sociale Italiana, sentito il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le Finanze, saranno di volta in volta determinate le imprese di cui lo Stato intenda assumere la proprietà.
Art. 33. (Nomina e compiti del sindacatore) - Con decreto del Ministro per l’Economia Corporativa, ciascuna impresa per la quale sia stato deciso il passaggio in proprietà dello Stato, è sottoposta a sindacato e ne viene nominato un sindacatore.
Il sindacatore ha il compito di svolgere, sentiti gli organi normali di amministrazione dell’impresa e con l’Istituto di Gestione e Finanziamento, le operazioni necessarie alla determinazione del valore reale delle quote di capitale per la loro conversione in Titoli dell’Istituto di Gestione e Finanziamento.
Art. 34. (Nomina e compiti del Commissario del Governo) - Il Ministro per l’Economia Corporativa può anche affidare la gestione straordinaria dell’impresa, di cui lo Stato intenda assumere la proprietà, ad un Commissario del Governo, eventualmente scelto fra gli amministratori in carica.
In ogni caso, alla data di pubblicazione del decreto di cui al successivo art. 40, che stabilisce il valore reale delle quote di capitale, gli organi di amministrazione dell’impresa sono sciolti di diritto e il sindacatore ne riassume i poteri con la veste di Commissario del Governo, per il tempo necessario alla costituzione del consiglio di gestione e alla nomina del capo dell’impresa.
Art. 35. (Nullità dei negozi che modificano il rapporto di proprietà del capitale) - Sono nulli i negozi tra vivi che comunque modifichino il rapporto di proprietà nei riguardi dei titoli azionari rappresentanti il capitale delle imprese per le quali viene deciso il passaggio in proprietà dello Stato, effettuati dal giorno dell’entrata in vigore del provvedimento che ordina il passaggio di proprietà.
Art. 36. (Amministrazione del capitale delle imprese di proprietà dello Stato) - L’Amministrazione del capitale delle imprese assunte in proprietà dello Stato è controllata dall’Istituto di Gestione e Finanziamento, ente pubblico con propria responsabilità giuridica.
La costituzione dell’Istituto e l’approvazione del relativo statuto saranno disposti con separato provvedimento.
Art. 37.(Compiti dell’Istituto di Gestione e Finanziamento) - L’Istituto di Gestione e Finanziamento controlla l’attività delle imprese di cui all’articolo 31, secondo le direttive del Ministro per l’Economia Corporativa e del Ministro per le Finanze ed amministra altresì le partecipazioni assunte dallo Stato in imprese private.
Art. 38. (Trasformazione delle quote di capitale) - Le quote di capitale già investite nelle imprese che passano in proprietà dello Stato vengono sostituite da quote di credito dei singoli portatori verso l’Istituto di Gestione e Finanziamento, rappresentate da titoli emessi dall’Istituto medesimo ai sensi dei successivi articoli.
Art. 39. (Valore di trasformazione delle quote di capitale) - La sostituzione delle quote di capitale già investite in ciascuna impresa che passa in proprietà dello Stato, con i titoli dell’Istituto di Gestione e Finanziamento viene effettuata per un ammontare pari al valore reale di quelle quote di capitale.
Art. 40. (Determinazione del valore delle quote di capitale) - Il valore reale delle quote di capitale delle imprese da trasferire in proprietà dello Stato, sarà determinato con decreto del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le Finanze, su proposta dell’Istituto di Gestione e Finanziamento, in contraddittorio con gli amministratori dell’impresa.
Contro il decreto del Ministro per l’Economia Corporativa è ammesso ricorso anche per il merito, entro 30 giorni dalla sua pubblicazione, al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale da parte degli amministratori dell’impresa o di tanti soci che rappresentino almeno un decimo del capitale sociale.
Art. 41. (Caratteristiche dei titoli dell’Istituto di Gestione e Finanziamento) - I titoli dell’Istituto di Gestione e Finanziamento sono nominativi, negoziabili, trasferibili ed a reddito variabile.
Essi vengono emessi in serie distinte corrispondenti ai singoli settori di produzione. Per ciascuna serie il reddito sarà annualmente determinato dal Comitato dei Ministri per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito, su proposta dell’Istituto di Gestione e Finanziamento, tenuto conto dell’andamento dei relativi settori produttivi e quello generale della produzione.
Art. 42. (Limitazione alla negoziabilità dei titoli) - E’ demandata al Comitato dei Ministri per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito la facoltà di limitare la negoziabilità dei titoli dell’Istituto di Gestione e Finanziamento emessi in sostituzione di quote di capitale, od anche di disporre l’iscrizione nei libri dell’Istituto del credito dei titolari di tali quote, senza che venga effettuata la materiale consegna dei titoli.
Art. 43. (Modalità del passaggio in proprietà dello Stato) - Con il decreto che dispone il trapasso della proprietà dell’impresa allo stato, o con successivi decreti, possono essere stabilite le norme integrative o di esecuzione sulle modalità e termini del trapasso medesimo, nonché quelle altre norme, modalità e termini che si rendessero necessari ed opportuni per il trasferimento del capitale allo Stato e per la assegnazione e distribuzione dei titoli dell’Istituto di Gestione e Finanziamento agli aventi titolo.
Titolo III. - DETERMINAZIONE E RIPARTIZIONE DEGLI UTILI
Art. 44. (Determinazione degli utili) - Gli utili netti delle imprese risultano dai bilanci compilati secondo le norme del codice civile e sulla base di una contabilità aziendale che sarà successivamente unificata con opportuno provvedimento di legge.
Art. 45. (Remunerazione del capitale) - Sugli utili netti, dopo le assegnazioni di legge a riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali che saranno stabilite dagli statuti e dai regolamenti, è ammessa una renumerazione al capitale conferito nell’impresa, in una misura non superiore ad un massimo fissato annualmente per i singoli settori produttivi, dal Comitato dei Ministri per la tutela del risparmio e l’esercizio del credito.
Art. 46. - Gli utili dell’impresa, detratte le assegnazioni di cui all’articolo precedente, verranno ripartiti tra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, in rapporto all’entità delle renumerazioni percepite nel corso dell’anno.
Tale ripartizione non potrà superare comunque il 30 per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell’esercizio.
Le eccedenze saranno destinate ad una cassa di compensazione amministrata dall’Istituto di Gestione e Finanziamento e destinata a scopi di natura sociale e produttiva.
Con separato provvedimento del Ministro per l’Economia Corporativa di concerto con il Ministro per le Finanze sarà approvato il regolamento di tale cassa.
Il presente decreto che sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale d’Italia ed inserito, munito del sigillo dello Stato, nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti, entrerà in vigore il giorno stabilito con successivo decreto del Duce della Repubblica Sociale Italiana.
Dal quartiere generale, addì 12 Febbraio 1944-XXII.
MUSSOLINI ( Tarchi, Pellegrini, Pisenti )
V° il Guardiasigilli: Pisenti


http://www.confederazioneculta.org/_dl_1944375_socializzazione_delle_imprese.html

Socializzazione - OGGI - DOPO IL 25 APRILE 1945
http://pocobello.blogspot.com/2009/10/la-socializzazione-dopo-il-25-aprile.html

sabato 22 ottobre 2011

DALLA BANDIERA ROSSA ALLA CAMICIA NERA



Nicola Bombacci - L'ultimo comizio a Genova nel Marzo 1945

Mario Bozzi Sentieri

Capire il biennio di sangue e di fuoco 1943-1945, comprenderne a fondo le vicende e le valenze, come si è tentato di fare in occasione del sessantesimo anniversario dell'8 settembre, vuole anche dire confrontarsi con alcune figure emblematiche di una Storia a cui male si adattano i vecchi schematismi interpretativi o peggio le assolutizzazioni ideologiche.
Come ha scritto recentemente Aldo Cazzullo, ("8 Settembre 1943 - Una nazione al bivio", "La Stampa", 3/9/2003), "..a Salò l'Ancien Régime fascista non c'è. Dei ventinove membri del Gran Consiglio, solo due - Buffarini Guidi e Farinacci - aderiscono alla Repubblica sociale. Dei due superstiti quadrumviri della marcia su Roma, uno, De Bono, è fucilato a Verona, l'altro De Vecchi, si proclama 'fedele fino all'ultimo respiro al mio Re'. Degli ex segretari del partito e degli ex comandanti della milizia nessuno segue il Duce nella sua ultima prova". Chi va a Salò allora?
Molti giovani, intanto. Ai balilla che "andarono a Salò", Carlo Mazzantini ha dedicato un bel libro autobiografico. Ma insieme agli ex balilla, ci sono anche molte figure emblematiche - come ha ricordato lo stesso Cazzullo. C'è Pavolini, l'intellettuale raffinato che diventa l'anima radicale dell'ultimo fascismo. Ci sono poeti alla Marinetti e tecnocrati come Pisenti e Romano. C'è l'aristocratico Principe Borghese ed il filosofo crociano Edmondo Cione. E c'è Nicola Bombacci, tra i fondatori, nel 1921, del Partito Comunista d'Italia. A Salò Bombacci diventa l'ispiratore dell'azione sociale del nuovo fascismo repubblicano, della sua estrema testimonianza rivoluzionaria. E' il marzo 1945: l'Europa è nel penultimo mese di guerra. Ad ovest, il 7 gli americani passano il Reno a Remagen. Ad Est crolla il "Muro di Pomerania". Il 6 i sovietici prendono Kamm, verso la foce dell'Oder. In Italia si intensificano gli attacchi aerei su tutto il territorio della Rsi, mentre gli alleati tentano la penetrazione a sud di Bologna. In questo "clima", che fa presagire l'imminente sconfitta militare, il fascismo repubblicano tenta di seminare, nella Valle Padana, le sue "mine sociali": "Mussolini - scriverà Ermanno Amicucci (I 600 giorni di Mussolini, Roma, 1948) - voleva che gli anglo-americani e i monarchici trovassero il nord d'Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai difendessero, nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste socialiste raggiunte con la Rsi". Il 22 Marzo 1945 il Consiglio dei ministri decide che si proceda entro il 21 Aprile alla socializzazione delle imprese con almeno cento dipendenti ed un milione di capitale. Il mito rivoluzionario del "potere ai lavoratori" diventa realtà. Non ci si limita però all'azione legislativa. All'interno degli spazi offerti da una situazione oggettivamente di emergenza e con i tedeschi preoccupati - come riferisce l'Ambasciatore Filippo Anfuso - a ritardare l'applicazione della legge "in considerazione dell'atteggiamento soprattutto inglese, che è volto a serrare le fila conservatrici in Europa contro i russi", viene accentuata l'azione propagandistica. Nicola Bombacci ne è il principale fautore ed artefice, colui che spezza "il pane della socializzazione" fra gli operai, direttamente nelle fabbriche. Egli non è un "teorico", anche se viene riconosciuta la sua influenza nella stesura delle leggi socializzatici, che trasformano i lavoratori da semplici dipendenti a compartecipi della propria azienda. I suoi scritti, a cominciare da quelli pubblicati sulla rivista "La Verità", da lui diretta, hanno il taglio dell'immediatezza e della polemica. Le folle affascinate Bombacci è piuttosto un tribuno, un tribuno secondo la migliore tradizione del socialismo italiano, capace, per conquistare con la ragione dei suoi argomenti, di toccare le corde del sentimento; di affascinare le folle, con la sua persona eretta, il volto incorniciato dalla tradizionale barbetta, il suo "apostolico" e carismatico entusiasmo.
Nel Dicembre 1944 egli parla a Verona, al Teatro Nuovo, e visita la Mondadori, già socializzata, traendone sorpresa ed emozione, come scrive in una lettera a Mussolini: "Ho parlato con gli operai che fanno parte del Consiglio di gestione, che ho trovato pieni di entusiasmo e compresi di questa loro missione. Mi hanno detto che gli utili di questi primi 6 mesi sono di circa 3 milioni". Tra la fine del '44 ed i primi mesi dell'anno seguente Bombacci parla a Como, Busto Arsizio, Pavia, Venezia, Brescia, privilegiando sempre il contatto con il mondo del lavoro. A Marzo parla a Genova, durante una visita di cinque giorni, che assume un valore simbolico, sia per la città in cui avviene, culla del socialismo italiano (ma anche del "secondo fascio d'Italia", fondato, nel 1919, a Sampierdarena, da un gruppo di operai di ispirazione sindacal-rivoluzionaria), sia perché vi pronuncia il suo ultimo comizio, ad appena un mese dai terribili giorni dell'aprile 1945. L'11 Marzo Bombacci parla al Teatro Universale, di fronte alle commissioni interne degli stabilimenti industriali. Parla da "socialista" ("perché il socialismo non lo farà Stalin, ma lo farà Mussolini, che è socialista, anche se per vent'anni, per ragioni di politica, è stato ostacolato dalla borghesia capitalistica, dalla quale è stato poi tradito"), ma anche da anticomunista ("il bolscevismo inganna il popolo. Stalin per primo si è venduto alla borghesia capitalistica. Egli è la continuazione della politica imperialista di Pietro il Grande. In fatto di progresso l'Urss è, sotto tutti i punti di vista, l'ultima nazione civile"). La polemica evidentemente non è casuale. C'è la coscienza, in Bombacci, come in tutti gli ambienti "socializzatori" della Rsi, che le giuste istanze del mondo del lavoro si possano, di lì a poco, trasformare in uno strumento dell'imperialismo sovietico, finendo così per essere sterilizzate: "Quali sono stati i programmi di Stalin a favore del proletariato internazionale? Quando tentò l'alleanza con Hitler sapete cosa chiese? Soltanto un vastissimo raggio d'influenza in Europa e si guardò bene dall'enunciare qualche programma in favore del proletariato. Egli manifestava la sua sete imperialistica e senza alcun impegno verso i lavoratori". L'invito agli operai è di "farsi avanti" con le proprie organizzazioni, di partecipare attivamente alla costruzione della Repubblica Sociale: "L'impero del lavoro, il primo che sorgerà in Europa, sarà quello di Roma, che dettò ed insegnò leggi ai popoli". Discorso agli operai Il 12 Marzo Bombacci tiene una riunione, alla Casa del Balilla, in Via Cesarea, ad una rappresentanza di lavoratori del credito, delle assicurazioni e dei marittimi, a cui espone le ultime realizzazioni della socializzazione. Decisamente più significativa l'assemblea, tenuta il 13, allo stabilimento dell'Ansaldo, di fronte ad un migliaio di operai. La fabbrica è, nel ponente genovese, una delle più importanti dal punto di vista produttivo, ma è anche tra quelle politicamente inquiete. Bombacci parla di conquiste operaie; confronta le condizioni del lavoro italiano con quelle degli altri Paesi; denuncia le mire espansionistiche ed i ritardi nello sviluppo dell'Urss; invita i lavoratori a dare il loro contributo alla Repubblica Sociale, perché soltanto ricacciando lo straniero e riacquistando l'integrità territoriale sarà possibile attuare appieno la socializzazione; ma soprattutto si "confessa": "Fratelli di fede e di lotta - dice - guardiamoci in viso e parliamo pure liberamente: voi vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent'anni fa. Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica sociale italiana è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi a rivendicare i diritti degli operai". Il 14 Marzo, nella centrale Piazza De Ferrari, Bombacci conclude la sua "visita" genovese e pronuncia anche il suo ultimo discorso pubblico. La piazza è colma. Si parla di trentamila persone. Oltre ad alcuni reparti dell'esercito e alla folla dei curiosi, forte è la rappresentanza operaia. L'oratoria è sempre sanguigna, anche se i temi trattati sono di più vasto interesse politico e militare: la socializzazione, dunque, le condizioni del lavoro, ma anche le impellenti necessità militari, la riconquista dell'integrità territoriale violata: "Non voglio affermare con questo che tutti gli operai devono oggi imbracciare un fucile e correre in trincea. Basterà che ognuno compia il suo dovere al suo posto di responsabilità, conscio dei doveri imposti dalla dura ora che la Patria vive; è soltanto una stretta collaborazione, che deve oggi unire tutti gli italiani che desiderano raggiungere le mete prefisse". Si suggella, in quell'ultimo discorso, in quell'ultimo incontro popolare prima delle bufera civile, una parabola; "l'apostolo della socializzazione", come già, trent'anni prima, per Filippo Corridoni, "l'Arcangelo sindacalista" dell'interventismo rivoluzionario: dalla classe alla Patria, dall'azione sociale all'unità del destino nazionale. Aveva scritto, nel 1937, su "La Verità": "Io sono arrivato al socialismo non nel 191- 8-19, ma nel 1900, non per calcolo né per cultura scientifica, ma per sentimento. (E' la colpa che mi hanno sempre rimproverato i professori del cosiddetto socialismo scientifico)". Per fede e per un più alto e compiuto sentimento di giustizia sociale si troverà il 28 Aprile 1945, poco più di un mese dopo il suo ultimo discorso genovese, sul lungolago di Dongo, di fronte al plotone di esecuzione partigiano, con Mezzasoma, Pavolini, Barracu e tanti altri esponenti del fascismo repubblicano: il suo ultimo grido, cadendo sotto la scarica mortale, sarà: "Viva il Socialismo!".

http://www.confederazioneculta.org/dalla_bandiera_rossa_alla_camicia_nera.html

giovedì 20 ottobre 2011

Qualcuno mi ha chiesto perché sono di destra


Rispondo con breve esposizione. Vedete cari amici, purtroppo in Italia pare che non ci possa essere dibattito politico, e nonostante io sia intimamente persuasa che il sistema bipartitico all’anglosassone sia il migliore, perché semplifica la politica, favorisce la stabilità e facilita l’alternanza, ormai mi son quasi rassegnata e temo che l’unico sistema plausibile per l’Italia sia quello proporzionale pluripartitico, con gli accordi sottobanco, le tacite connivenze, la lottizzazione delle poltrone, gli inciuci politici, la compravendita delle preferenze. La nostra cultura è questa e non possiamo eluderla snaturandoci, se non cambia qualcosa, se non cambia la cultura, se non cambia il modo di pensare. Guardate che fanno: pure sulle liste di preferenza adesso ci stanno i ripensamenti. Si era detto collegi uninominali, perché nella logica delle cose è ovvio che ogni partito metta a capo di un collegio elettorale il meglio di cui disponga, evitando che, qualora ci fosse una lista di candidati come c’era prima, poi questi possano comprarsi le preferenze, o addirittura costringere la gente a votarli (mafiosi e camorristi).

Era una scelta di civiltà. Mo esce fuori che non c’è la libertà di scegliere il candidato che si preferisce, che bisogna reintrodurre le liste. Ma dove sta il problema se il candidato che ti propone il tuo schieramento non ti sconfinfera? Voti per quell’altro, o non voti affatto. Apro una parentesi. Pure quest’altra cosa che se non raggiungi percentuali di partecipazione bulgare non c’è democrazia non sta né in cielo né in terra. Secondo tutti i modelli statistici e matematici il risultato di un evento è attendibile se lo è il campione rappresentativo considerato. Ed io mi rifiuto di credere che se va a votare il 60 % della gente invece dell’80 ciò risulti in uno stravolgimento del risultato elettorale. Il 60 % è un campione altamente significativo, ma scherziamo? anche perché comunque riguarda, includendoli, tutti gli orientamenti, tutte le regioni, le fasce sociali, le fasce d’età. Chiusa parentesi. Ma adesso i centristi, la Lega, molta parte della sinistra vorrebbero ritornare al voto di scambio. Ma si può fare politica in questo Paese in cui non si decide mai niente, e se per una volta che si decide qualcosa tra mille titubanze poi si torna indietro? Io sono di destra perché è a destra che si conservano (si conservavano? Il dubbio è legittimo a guardare Fini, Casini e soci) certi valori ideali e morali e certi comportamenti. Ma ammetto di essere di destra anche per il semplice fatto che in Italia la sinistra non esiste come credibile alternativa di governo. La grande novità introdotta da Berlusconi, e dalla Destra, è stata quella che per la prima volta nella storia di questo Paese qualcuno non solo ha elencato un programma credibile, ma ha anche indicato i tempi e, novità sensazionale e clamorosissima, come e dove reperire le risorse necessarie ad attuarlo. Io sfido chiunque a indicare un solo caso, uno solo in cui una qualsiasi personalità di sinistra abbia mai fatto riferimento al “chi paga”, dove reperire le risorse per le misure che propongono che, in mancanza di indicazioni sul come realizzarle, sono solo utopistiche chimere, fatue elencazioni da libro dei sogni. Che ci vuole a dichiararsi d’accordo ad aumentare le pensioni abbassando l’età pensionabile, a dare un lavoro a tutti, ad inserire i giovani nel sistema produttivo nazionale, a rilanciare l’economia portando il PIL al 4 %, a ridurre le tasse, ad azzerare il debito pubblico, a fabbricare quantità sterminate di case popolari, a superfinanziare la ricerca e la formazione, a rendere la scuola una sorta di paradiso terrestre, a favorire i consumi delle famiglie, a fare la pace con tutti, a tutelare l’ambiente e l’assetto del territorio, a potenziare la Protezione Civile e le Forze dell’Ordine per più sicurezza per tutti, ad assicurare un approvvigionamento energetico ridondante, a migliorare la democrazia del Paese, ad inserire gli immigrati, a migliorare e sempre più diffondere l’assistenza sanitaria, ecc ecc. Chi non sarebbe d’accordo su un programma del genere? Si, ok, va bene, ma come, dove, quando e chi? E qua cascano l’asino, il PD, l’Ulivo o tutti i marchingegni che si inventa la sinistra. Non aspettatevi che quelli vi dicano mai come creare risorse da spendere a beneficio di tutti. E quando lo fanno dicono sciocchezze sesquipedali. Come quando se ne escono “Colpiamo le grandi rendite…”

Per carità, io sono la prima a sostenere che le rendite parassite ed improduttive vadano tassate, ma bisogna pure rendersi conto che non si può tirare troppo la corda perché se poi non conviene più investire in Italia, uno prende e se ne va da un’altra parte, sia essa la Cina, la Romania, il Brasile, l’ex Jugoslavia, l’Indonesia, il Vietnam, la Bulgaria, ecc ecc… Come hanno fatto molti imprenditori vessati da un sistema fiscale indecente e penalizzante (me lo dite voi come lo batti sui prezzi un produttore tedesco, irlandese o americano che a monte paga il 20 % di tasse in meno di un imprenditore italiano?) e da relazioni industriali (i sindacati) a dir poco raccapriccianti. Invece, bisognerebbe fare il contrario, cioè rendere remunerativo ed attraente investire nel nostro Paese per creare ricchezza. Oppure se la prendono con le cosiddette fasce medio-alte, che per loro un padre di tre figli e moglie a carico (il mio ad esempio), il mutuo, due rette universitarie ed una del liceo da pagare, senza dire del resto che tutti conoscono, con un reddito lordo di 32.000 € l’anno è uno “ricco” che ci si può permettere di spennare. E te ne devi pure andare alla scuola pubblica a sorbirti professori scaciati, ignoranti ed immotivati, che ti magnificano le doti di Fidel Castro e del Che, che guardate che sviluppo la Cina, e Berlinguer…che capo! (e guardatevi pure la figlia, no?) e ti sbattono in faccia Il Manifesto e Liberazione perché non ti puoi permettere la scuola cattolica e se la sussidiano siamo fascisti. Una scuola che si è ridotta che il 93% della spesa dello Stato a suo favore copre solo i costi correnti, cioè gli stipendi di quelli che insegnano ( si fa per dire..) ed i costi di conduzione e manutenzione degli edifici scolastici. E la formazione e l’informatizzazione? Questa è la sinistra in questo Paese, questo ha fatto la sinistra in Italia. Ritornando a bomba siccome non si può fare tutto e subito, giustamente il Governo Berlusconi aveva posto delle priorità, dei traguardi per raggiungere i quali si sono obbiettivamente frapposte difficoltà impreviste. Ma al di là di tutto, si può riconoscere ed apprezzare la validità del metodo di governo adottato e che le uniche critiche rivolte dall’opposizione si riducono alle invettive personali, specie nei confronti del Premier, senza una sola proposta costruttiva.

Loro, quelli che pretendono di avere l’esclusiva nella difesa delle istituzioni, sono gli stessi che insegnano ai bambini che l’avversario non si batte sul piano dialettico, ma va distrutto ed eliminato, perché è ricco, becero e cattivo. Che questi invasati allucinati non si rendono conto (ma alcuni lo sanno benissimo e fingono di non rendersi conto) che molti importanti imprenditori di questo Paese hanno trovato modi più subdoli ed efficaci per tutelare i propri interessi senza esporsi: mettevano in Parlamento dei loro fantocci a coltivare i loro orticelli. E ce n’erano di giardinieri!! Si sa che dagli anni ’60 una grande fabbrica di automobili ha adottato una politica assolutamente vincente: nelle annate buone si teneva gli utili, in quelle cattive andava a bussare a quattrini presso i vari governi succedutisi col ricatto della cassa integrazione, dei licenziamenti e delle chiusure, in questo sostenuti dai sindacati con i quali simulavano aperte conflittualità per coprire orride connivenze sottobanco. Almeno il Berlusca ci ha messo la faccia, si è impegnato in prima persona, per volontà ed ambizione di rendersi utile alla comunità che lo ha fatto ricco. Son stati la fede in certi valori imprescindibili, altruismo e buonafede a spingerlo nell’agone politico, che per tutelare i propri interessi gli sarebbe convenuto rimanere nell’ombra, comprarsi un po’ di parlamentari e fare adottare provvedimenti a suo favore, come facevano quelli che hanno fatto costruire le autostrade per vendere automobili e pneumatici, a cominciare dalla Milano-Laghi, tanto per sfatare la leggenda che Roma sia ladrona e che la virtù risieda a Torino, Milano e Bologna. Ora Berlusconi passa, ma il metodo che ha adottato spero che resti. E’ un modo nuovo di fare politica, del quale spero che chi gli succederà vorrà fare tesoro. Se no torniamo alle alleanze coi tri-quadri-pentapartiti con durata media di 8 mesi, quando va bene. Dovete sapere che ancora nel 1975, 35 anni fa non nel Medio Evo, il bilancio italiano era in pareggio. Chiedetevi poi cosa sia mai successo per arrivare al punto in cui siamo: le aperture, i coinvolgimenti, le alleanze allargate, la strategia dell’attenzione, il tutto e subito, la demagogia a tonnellate.

Andate a vedere chi sono quelli che ci hanno ridotto così: gli stessi che adesso si oppongono a che qualcosa cambi sulla via di una capacità di governo riformatrice, rigorosa, virtuosa ed attenta. Per questo sono di Destra. Per tutte queste cose che a sinistra non capiranno mai.

Banche: amarcord italiano





di: Ugo Gaudenzi

Sembra che l’ex ministro del Lavoro Usa, Robert Reich, sia stato “illuminato”. Reich ha difatti inviato un messaggio al comitato “NoBigBanks”, tra i promotori della lunga protesta contro Wall Street, per sostenere - udite, udite - la immaginifica proposta di “dividere le attività bancarie finanziarie speculative da quelle ordinarie”, per garantire così che i cittadini non saranno più costretti a subire le conseguenze di un sistema finanziario ultraliberista basato sul gioco d’azzardo che affossa l’economia reale, quella produttiva.
Certo, di questi tempi una proposta “rivoluzionaria”. Salverebbe, dicono, anche l’Europa dalle continue “manovre” e stangate volte a tenere in piedi un sistema di salvataggio bancario...
Ma, ci chiediamo noi, non è che Mr. Reich abbia “scoperto l’acqua”? Crediamo proprio di sì.
Prendiamo l’Italia di 80 anni fa. Che cosa decisero le autorità dell’epoca perché la nazione non fosse coinvolta nella “grande depressione” esportata dagli Stati Uniti d’America? Per frenare il collasso del sistema bancario italiano?
Decisero esattamente questo.
Le banche dovevano essere banche (e di categoria: agricoltura, lavoro, commercio etc.) non doveva esserci alcuna partecipazione azionaria tra banche e attività finanziarie e industria produttiva o commerciale, e soltanto l’Imi assicurò alle imprese finanziamenti di medio-lungo periodo. La conclusiva legge-quadro di riforma bancaria (1936) definì la Banca d’Italia - di emissione del denaro e di vigilanza sugli istituti di credito - un “istituto di diritto pubblico” (di tutti...) e gli azionisti privati vennero espropriati dalle loro quote; alla Banca d’Italia fu demandata la vigilanza sugli istituti di credito e finanziari, al suo “governatore” fu imposta la direzione di un comitato ministeriale presieduto dal Capo del governo; fu deliberata una ancora più netta separazione tra banche e industria; l’attività di credito fu definita (con i doveri conseguenti) un servizio di interesse pubblico, le maggiori banche nazionali diventarono a partecipazione statale (le b.i.n.), quindi di tutti i cittadini. E così via.
Ma qualcuno, nel 1993 - già: quella banda (dei vari Andreatta, Prodi, Ciampi, Dini, Draghi) che ha predato la nazione di tutte le sue industrie e imprese strategiche - ha abrogato quella legge. Era, evidentemente, “fascista”... O, comunque, era d’ostacolo all’arrembaggio dei privati, degli speculatori, degli usurai.
Dunque, e Reich? Un liberista anti-liberista? Ma va là...

tratto da: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=11000

martedì 18 ottobre 2011

TENIAMOCI PRONTI



di Miro Renzaglia

“Che cos’è questo liberismo? Se qualcuno ritiene che per essere perfetti liberali occorre dare a qualche centinaio d’incoscienti, di fanatici, di canaglie, la libertà di rovinare quaranta milioni d’italiani, io mi rifiuto energicamente di dare questa libertà.”
Benito Mussolini

Poiché mi potrà capitare di intercambiarli, stabiliamo subito un’eguaglianza: liberismo e capitalismo sono la stessa, medesima cosa… Distinguiamo, semmai, fra capitalismo “produttivo” e capitalismo “finanziario”: il primo, se lo si inserisce in un sistema-stato corretto può (deve…) avere una funzione sociale. L’altro, quello che specula su se stesso (in una scommessa roulettistica, dove se vince, vince lui, se perde perdiamo tutti…) è il “male assoluto” (questo sì, non quello scoperto di recente dal vicepresidente del consiglio in carica…) e, come tale, va reciso alla radice. Tutti e due i capitalismi soffrono, comunque, la presenza di uno stato che non rinunci alla sua istanza primaria e fondamentale: quella di rappresentare gli interessi comunitari prima di quelli individuali (devo ricordare che l’individualismo è esaltato proprio dal liberalismo da cui, a sua volta deriva, im-mediatamente, il binomio liberismo-capitalismo?)… Lo stato partecipativo spiace al (ai) capitalismo (capitalismi)… Ma questo non è motivo sufficiente per abbassare la testa davanti alla dittatura della moneta che incombe, Pensiero Unico Sovrano (PUS), sulla sorte dei popoli…

Mi spiego. E’ fuor di dubbio che uno stato che permetta al capitalista di perseguire il suo scopo preminente (produrre super profitto a suo esclusivo interesse...) è la condizione che più gli conviene (al capitalista…). Se non che, sin dalle origini della Rivoluzione (?) industriale, questi interessi hanno via via cozzato sempre più violentemente contro l’interesse comunitario… Grazie a Dio, poco dopo quella inglese (1780) c’è stata, però, la Rivoluzione francese (1789). Se fino ad allora un re sole qualsiasi poteva pretendere d’essere, lui, lo stato, dopo qualche ben assestato colpo di ghigliottina è diventato del tutto evidente che lo stato siamo noi… Siccome siamo noi (noi, popolo che, nella mia visione, è bue solo nella misura della sua rassegnazione ad essere ridotto in hamburger da fast food…); siccome lo stato siamo noi - dicevo -, il nostro interesse è che si riconosca, in prima istanza, pari dignità ai vari elementi del gioco di produzione economico. Cioè - intendo dire - che i fornitori di braccia e menti, siano corresponsabili dell’impresa (economica ma non solo, va da sé…), insieme ai fornitori di capitali e che, in seconda istanza, una volta stabiliti i giusti dividendi di partecipazione agli utili, il super profitto eventualmente derivato dall’impresa produttiva stessa (industriale, agricola, terziaria, etc…) sia reinvestito in pubbliche esigenze sociali… E’ ovvio che il capitalista preferirebbe (preferisce…) gestire in proprio (oltre all’impresa...) i super-profitti (di solito, reinvestiti in giochetti di borsa e/o finanziari…). Uno stato che, invece, indirizzi questi utili verso soluzioni di interesse pubblico gli procura rodimenti nelle parti basse e a tergo. Eliminabili solo con robuste e popolari spazzole di ferro…

A nome di questo concetto, che non avrete avuto difficoltà a sintetizzare col nome appropriato di socializzazione, contesto anche una visione che pure ha il suo fascino, quella della “triarticolazione”, politica-economia-cultura, sostenuta da un pensatore, per altri versi esatto e geniale, rispondente al nome di Rudolf Steiner. Soluzione che prevede sfere di assoluta autonomia d’intervento dei singoli monomi nei rispettivi ambiti… Gli è che sono inguaribile ambasciatore di una Weltanschauung olistica della società (attenzione: ho detto olistica, NON totalitaria…) dove, a volerla dire tutta e in breve, i compartimenti stagni non sono né previsti né auspicati…

Nell’ottica che ho fin qui cercato di mettere a fuoco, non mi piace nemmeno (e, a questo punto, mi aspetto gli epiteti di assoluto incontentabile e rompicoglioni: me li merito, è vero, ma non so che farci…) l’apologetica dell’euro come dichiarazione di guerra al dominio capitalistico-finanziario del dollaro… Se vogliamo, la Federal Reserve ha ancora uno stato (quello che si USA imperal dominante …) con cui confrontarsi, prima di compiere le sue infamie. La Banca Centrale Europea, invece, no… Quando si propagandava l’avvento dell’euro, si diceva alle allodole in calda attesa dello specchietto che le attirasse alla puntuale fucilata, che esso (l’euro…) sarebbe stato viatico all’avvento di uno, futuro-prossimo, stato europeo… A parte che Guénon non avrebbe avuto difficoltà a stigmatizzare l’ordine inverso delle procedure (prima la moneta, poi lo stato…) come inequivocabile segno dei tempi, ma dopo i recenti referendum di Francia e Olanda, sappiamo tutti che era una bufala di mozzarella (con tutto il rispetto per la mozzarella di bufala, è vero…). L’Europa Stato non è solo di là da venire ma, dato il privilegio alla Banca Centrale Europea di battere moneta senza uno straccio politico attendibile a farle almeno il contro canto, a questo punto, e proprio per ciò, è ancora più difficile realizzare un’ipotesi alternativa di Europa... Senza contare che io, personalmente, non saprei cosa farmene di un’Europa alter ego indistinguibile dal modello americanista… Voglio altro (il lettore perdonerà, è vero, l’esigente aspettativa…).

A questo proposito, vi propongo un testo poetico, composto qualche anno fa, che sintetizza bene - spero - il mio ragionamento:

U.E.M. (UNIONE EUROPEA MONETARIA)

“Con la moneta unica perdiamo una sovranità che avevamo già perso…” Ministero del Tesoro,
del Bilancio e della
Programmazione Economica
- Comitato Euro - 1998

Ipse dixit. Ipso facto. L’Europa scomparirà nel bagno acido di Maastricht.
Nessun banchiere è stato mai eletto dal popolo. Il cambio, taglierà i costi d’interesse sul debito pubblico. Ma lo stato cede sovranità alla nuova Banca
Centrale Europea. Dichiarazione di guerra al dollaro. Euroforia. Liquidazione
dello stato sociale. E oro alla patria, per non averne più. Pil: + 2,7% / posti lavoro:
- 400.000 = disoccupazione senza crisi produttiva. La tigre asiatica, chiede prestiti al F.M.I.. Sta nascendo un partito che dispone di 50.000 miliardi senza vincoli e controlli. Rifondazione Bancaria.

Apolide e piratesco. Più potente degli stati nazione e delle multinazionali,
dei parlamenti e dei consigli d’amministrazione, il capitale finanziario
sacrifica l’interesse non calcolato sul calcolo degli interessi all’unico dio
del tornaconto. La banca svizzera fornicò coi nazisti per puro profitto.
Denaro convertibile in panzer. Gli svizzeri, nani ariani, riciclano marchi:

“visto si ratifica” - il liberalissimo governo del cucù. Senza di loro, la II guerra mondiale finiva prima. Senza l’Haute Finance, nemmeno cominciava. Il mito della sua neutralità se l’è fabbricato con l’oro nazista e i conti che non tornano agli ebrei …idem
il Principato di Monaco. Complice: Luigi II dalle Tasche Bucate.

“Ne ho fatto la filiale segreta del Reichsbank.” F.to Johannes Charles. Sottoscrive Mandel Szkolnikoff, ebreo di origine russa, addetto servizi finanziari delle S.S., coofondatore della Charles et C.ie Bank. Nessuna epurazione. La guerra è sempre l’ottimo affare di chi non la fa.

“Si dice che io abbia inventato una specie di socialismo di stato. E’ falso. Mi sembrava giusto che un operaio menomato da una macchina o un minatore mutilato da un’esplosione dovesse essere strappato alla fame. Così mi sono battuto per creare un fondo a favore degli operai, gestito da corporazioni autonome, per stimolare uno spirito solidale e d’iniziativa.” Parola di Bismarck… …e ora che il catorcio dello stato sociale sarà finalmente rottamato, vivremo liberal e felici, sette giorni su sette, alla: “Chi vo’ dio se lo prega”.

Black ‘47 (Milleottocento). Muffetta bianca mangia foglie di patata. Phitophora infestans. In una notte marciscono tutte le tuberose della pianura. Pus e infezione sul cuore d’Irlanda. Cinque anni di carestia. Un milione di morti. Due
di emigranti. E mentre in uno solo giorno salpano dal porto di Cork navi cariche di 147 casse di pancetta, 120 barili e 135 botti di maiale, 5 botti di prosciutto, 1996 sacchi e 950 botti d’orzo, 300 sacchi di farina, 300 capi di bestiame, 239 pecore, 9398 barilotti di burro, 542 scatole di uova, per sfamare i ben pasciuti inglesi, la cricca liberista di Manchester detta la sua miserabile ricetta: “Neanche un pasto gratis a chi muore di fame, se non si vuole creare un popolo di mendicanti vittime dell’assistenza”.

E ricordiamo la campagna della casa a cavallo tra i ’70 e gli ’80 (Millennovecento)...L’equo canone blocca il mercato degli affitti. La prassi parallela degli sfratti poliziotti induce il bisogno diffuso di case in proprietà. Alle famiglie senza risorse per il salone due camere e doppi servizi, le banche offrono “mutui agevolati”. Raddoppia d’interessi il prezzo originario. Nel ’97, il 75% delle famiglie possiede quattromura ma la soglia di povertà è sotto il reddito di quattro milioni al mese (rapporto CENSIS) …e un operaio ne guadagna al massimo due. Così, alla scadenza della rata, o la banca ti rinnova il prestito o ti dà l’indirizzo della finanziaria affiliata. Come se non bastasse, su queste case, di fatto e fino all’ultima rata in comproprietà bancaria, lo stato impone il balzello dell’I.C.I.. Paga il residente: unico proprietario virtuale. Banca esente. “Vix Pervenit. Ipsius ratione mutui”

Sull’interesse della moneta non risparmia nessuno. Il 125% del Pil impone al debito pubblico italiano interessi annui per 200.000 miliardi (£). Senza scalfire il capitale debitorio. Va peggio al Marocco, 22.512 miliardi (di dollari. rata annua 3 miliardi). Algeria 29.898 (r.a. 5). Costa D’Avorio, 18.452 (r.a. 1,2). Nigeria, 28. 479 (r.a. 2). Congo ex Zaire, 12.366 (ignota la r.a.) Egitto 33.358 (r.a.comoda: 2). Sudan, 17.710 (quasi tre volte il prodotto interno lordo). il Congo-Brazzaville dovrebbe spendere il 454% del Pil. Mozambico, debito pari al 450 % del Pil, però a servire il debito va “solo” il 23% delle esportazioni. Fonte: The
Economist, marzo ’98 (Millenovecento,) …e non c’è un cane di Catilina che chieda Tabulae Novae. Almeno sugl’interessi. Ora, se un usuraio ti strozza, per lui c’è la galera e per il debito la moratoria (dovrebbe, in teoria). Se lo fanno il Fondo Monetario, la Banca Mondiale o gli ingegneri privati dell’Haute Finance non parte nemmeno la querela. Al nocciolo della cipolla: riforma finché vuoi lo stato-nazione ma, federale o del presidente, se non azzeri il debito pubblico resti un paria, pure se rifondi l’Impero Romano (e se cedi sovranità, hai già chiuso per fallimento).

Un popolo incravattato non si sdebita mia. E alla fine s’impicca. E’ storia vecchia. Per fermare Giovanni Cantacuzeno, Anna di Bisanzio prese a strozzo 30.000 ducati dalla banca della Repubblica Veneta. Pegno: i gioielli della Corona. I sovrani Paleologhi non riuscirono mai a saldare quel debito. Citato al rinnovo d’ogni trattato mercantile, via via ingrassato dalla prassi usuraia dei dogi, quando cadde l’Impero, la Serenissima vantava un credito di “17.000
hyperpyra” (e il tesoro della Corona è ancora a S. Marco…).

Se il tempo è denaro, il denaro sottratto al denaro è tempo sottratto alla vita. Legge dell’usura. Nel Medio evo, la Chiesa inventò il purgatorio per spedirci i banchieri. Prima, gli usurai finivano al rogo. E subito dopo all’inferno. E oggi,
non c’è mano lesta che si scotti le dita …e anziché banconote, certificati prescrivibili del lavoro compiuto. La moneta che sa di morire non si fa murare viva in una banca. Finisce il mito della moneta immortale. Ma finisce pure il potere di creare denaro dal nulla. L’intuì Steiner e fu bollato alchimista. Li emise Gesell, Baviera Sovietica (1919), e fu processato: alto tradimento. Keynes ne ammise le ragioni ma era il custode dell’ortodossia… e voleva restarlo. Li mise in versi Pound e si beccò 12 anni di manicomio criminale così, tanto per riordinare le idee. Li contemplò metafisici Villella, e chi lo conosce? Lo ripeto io e non so nemmeno a chi. Certificati prescrivibili: simbolo della merce prodotta.
Si destina a morte la moneta con l’affrancatura mensile di una marca da bollo. Pena il decorso del suo valore. La marca costa 1/100 del valore stampato su carta moneta. Unica tassa. In cento mesi la cara moneta si estingue. I
certificati sono costretti a circolare senza soste forzate ai depositi bancari. In parole povere: se Zio Paperone s’accorge che il livello del suo forziere scende di 1/100 al mese, o la pianta coi tuffi di salute nella piscina monetaria o nel girodi 8 anni si rompe l’osso del collo…

Detto ciò, nei termini che mi sono più propri (quelli poetici, è vero...), affermo: affidandoci agli opposti centrismi, tutti magnificanti le infallibili virtù di uno stato che lascia fare (“laissez faire”: è la parola d’ordine liberal-liberista, ricordiamolo…) e sempre più deve lasciar fare nei gangli nervosi del vivere comunitario, pena gli infallibili anatemi del Fondo Monetario Internazionale e consorterie usuraie affiliate, ci siamo messi tutti in coda, per l’ennesima volta, allo sportello del Nuovo Totalitarismo Gnostico: il liberismo. Che nuovo non lo è, poi, nemmeno tanto. Invenzione tipicamente moderna, aveva già dimostrato di essere perfettamente fallibile (e fallita…), tanto come sistema economico (lo dimostrano la grande depressione del ’29 e tutte le altre depressioni finanziarie, fino al recente caso argentino…) che come modello socio-politico. Come dimostrato ampiamente dalle grandi reazioni anti-liberiste di massa del fascismo e del comunismo…

La Seconda guerra mondiale, dichiarata unilateralmente dal grande capitale finanziario -

“Alla fine, i banchieri dovranno rispondere a questa semplice domanda: se la Seconda guerra mondiale è scoppiata per difendere la Polonia dai suoi invasori, perché i vostri governi liberisti fecero guerra alla Germania, alleandosi coi russi che si erano spartiti la Polonia coi tedeschi?”

la Seconda guerra mondiale - dicevo - tagliò la gola ai fascismi. La guerra fredda ha strozzato quella dei popoli sovietici (costringendoli a una corsa agli armamenti impossibile, perché senza fondo le casse fornitrice della santabarbara USA: questa stampa denaro senza più riguardo nemmeno alla “miserabile base aurea”, i sovietici, più onesti, la stampavano con riguardo, almeno, alle possibilità produttive delle loro imprese …). Così, lo mondo intero si è ridotto nella formula: tutto il potere alla moneta...

C’è dell’altro. Il pensiero liberista di età postmoderna è più subdolo di quello “alle origini della borghesia” (Pier Paolo Pasolini). Lo è (più subdolo…) per una multiformità che lo rende anche differente dai precedenti totalitarismi gnostici. Oggi, non industria più per associarsi a una forma-stato preferenziale e s’ingegna a controbattere tesi politiche, filosofiche, sociali o religiose avverse, solo quando sono irriducibili alla sua egemonia: cioè, alla egemonia dell’interesse su interesse della moneta (l’Islam, per esempio…). Disposti a sposare chiunque non metta in discussione l’indiscutibile primato della moneta (e di chi la possiede in montagne geometricamente moltiplicabili per usura…) e della sua libertà di movimento fra borsa e borsa, fa guerra al terrorismo solo per imporre la sua (della moneta…) egemonia negli spazi geopolitici strategici, in una logica che è sempre ed esclusivamente la stessa: quella del super profitto a suo assoluto, autoreferenziale vantaggio. In altri casi non secondari, investendo capitali a interesse, costringe le nazioni a quella specifica condizione di dipendenza che è propria del debitore. Infatti: “Una nazione che non vuole indebitarsi fa rabbia agli usurai” (Ezra Pound). Da qui, tutte le infamie dei servizi deviati (?), delle guerre umanitarie (?), del terrorismo in proprio o di quello dato in appalto di mano d’opera... Ed è precisamente a questo che l’Europa c’addavenì’ non dovrà mai più rendersi complice: per natura, per destino, per cultura, per tradizione…

Ma io (non marxista...) nutro un’incrollabile fiducia nella profezia marxiana dell’immancabile implosione del capitalismo. Marx sbagliò i tempi (ritenendoli imminenti alla sua diagnostica…) e il luogo (riteneva che la reazione sarebbe avvenuta nei luoghi dell’affermazione insorgente del capitalismo industriale: l’Inghilterra per intenderci e, invece, la reazione avvenne in un paese dall’economia quasi esclusivamente agricola: la Russia e in un altro, in fase industriale ancora precaria: l’Italia…). Ma chi abbia un po’ di dimestichezza con il suo pensiero (di Marx…) non può non riconoscere come il percorso da lui avveduto si stia realizzando: più il capitalismo conquista territori (geo-economico-politici…), più si avvicina alla saturazione della sua istanza primaria… E al crollo. Il capitalismo fallirà: è inevitabile (per fortuna…). A quel punto sarà necessario un piano di pronto intervento per la più grossa crisi che il mondo, dalle origini ad allora, avrà conosciuto. Per effetto domino, verranno giù tutti i capi saldi della sua struttura. Una tabula (quasi...) rasa si prospetterà come destino immediato degli uomini che dovranno ricominciare… Da zero? No… non proprio… Il ‘900 è stato terreno di coltura e di cultura di interessanti esperimenti, alternativi al “migliore dei mondi possibili” (Leibniz, secondo logica liberal-liberista…). Il fascismo ha detto la sua. Ma la sconfitta militare e 60 anni di scientifico martellamento negazionista (sic!) hanno occultato la sua vera eredità… Un’eredità - mi riferisco alla socializzazione…. - che è il superamento tanto del capitalismo privato (leggi: liberismo…) che di quello statale (leggi: comunismo nelle forme distorte dall’ingessatura burocratica a scapito del tutto il potere ai soviet…). E’ necessario che qualcuno riprenda le insigni insegne della socializzazione, dia loro una spolverata epocalmente appropriata e le renda utilizzabili alla prossima evenienza. Teniamoci pronti…

lunedì 17 ottobre 2011

STATO CORPORATIVO E SOCIALIZZAZIONE


di Aldo Spera e Filippo Giannini

NEL RICORDO DEL MANIFESTO DI VERONA UNA PROPOSTA PER IL XXI
SECOLO PER L'ITALIA E PER LA NUOVA EUROPA:
PARTECIPAZIONE INTEGRALE DEL POPOLO AL POTERE IN UNO STATO ORGANICO

No, non sono un democratico e non credo nella democrazia, non credo alla quella democrazia che ci fu imposta dagli eserciti stranieri. Credo, invece, nella Democrazia Organica o, come vogliamo chiamarla: Democrazia del Lavoro.
Terminammo il precedente articolo Stato Corporativo con l’impegno di tornare sull’argomento, cosa che ci stiamo proponendo di fare.

Ripetiamo di nuovo quanto ebbe a dire Benito Mussolini: "il marcio non è NEL sistema, ma è DEL sistema", crediamo che nessun lettore si può augurare che l’attuale sistema possa continuare a vivere.
Che l’attuale sistema sia marcio lo è perché nato da un seme marcio e proclama la santità dell’attuale Democrazia (così i potenti la chiamano) proclama che il cittadino può avvalersi dell’alternanza, cioè concede che al termine di ogni legislatura il cittadino, non soddisfatto di come è stato governato, può passare l’autorità del governo all’opposizione.
È una bidonata, cioè cambiare per far rimanere le cose come erano. In altre parole è come se un contadino, o chi per lui, ci invitasse a gustare le mele di un albero; prima gustiamo quelle mele che pendono dai rami di destra, poi se non sono di nostro gradimento ci invitasse a provare quelle di sinistra. Questa è la bidonata: rami di sinistra o di destra le mele saranno fetenti in ogni caso, perché l’albero è sempre quello. Atto pratico: abbiamo “gustato” il governo Berlusconi di centro-destra, e abbiamo constatato la sua incapacità; i democratici ci dicono: ora provate con il centro-sinistra. Sai che capolavoro: come si dice "Dalla padella alla brace!".
Perché il sistema è lo stesso e ci darà la solita fetenzia.
Torniamo all’esempio dell’albero: non vogliamo più le mele, vogliamo, ad esempio, le pere, cioè pretendiamo di cambiare il sistema.
Premessa: i vincitori dell’ultima guerra, cioè quei vincitori di una guerra perduta, hanno concepito tre leggi liberticide (alla faccia della democrazia e della libertà) con le quali ci è vietato di esprimere chiaramente chi siamo.
Per indicare chi siamo, chiamiamoci: “Noi”, il lettore comprenderà perfettamente.
Per “Noi” l’organizzazione della società dipende, innanzitutto dalla politica ed è indispensabile che la politica controlli e diriga l’economia. Esattamente il contrario di come viene concepita la politica nel sistema vigente. Politica concepita e partorita dalla Resistenza e dai vincitori demoplutocratici del 1945.
Mussolini, sì, sempre lui, chi altri altrimenti? Concepì, avvalendosi dello Stato etico di Giovanni Gentile, uno Stato Corporativo che altro non era se non lo sviluppo dei Punti programmatici espressi il 19 marzo 1919 con la fondazione dei Fasci di Combattimento avvalorati da De Ambris e da D’Annunzio, autori della Carta di Libertà del Carnaro.
Così, nel 1927, vide la luce la Carta del Lavoro, già ricordata nel precedente articolo, tutto ciò seguendo un progetto di collaborazione e solidarietà che superava la filosofia materialistica (rovinosa e fallimentare) della lotta di classe di profilo marxista.
Questo progetto, forse oggi ancora più valido di allora in quanto il lavoro assumerebbe una valenza primaria, assegnando ai lavoratori e alle varie competenze il compito di eleggere le proprie rappresentanze di categoria destinate a legiferare in Parlamento.
E i partiti politici?
Per i danni che questi arrecano e che hanno arrecato per la corruzione di cui sono portatori, meriterebbero di essere gettati in una discarica a cielo chiuso.
Naturalmente gli autori di queste note si rendono conto che per un trapasso come quello indicato è impossibile soprattutto perché per realizzare il nuovo sistema sarebbe necessario disporre di quanto ci viene negato: la possibilità di accedere a mezzi d’informazione adeguati. Altrimenti si rimane sul piano della fantasticheria e, addirittura, del vaneggiamento.
Va aggiunto che “Noi” siamo divisi e rancorosamente spezzettati, grazie alle tante operazioni messe in atto da coloro che vogliono che tutto rimanga come è.
Per “Noi” i concetti liberaloidi di destra, centro e sinistra rimangono completamente privi di senso.
Chi scrive queste note ritiene che fu un irrimediabile errore quello compiuto dal MSI definirsi di Destra, perché quelle idee non possono essere assolutamente di Destra:
Da un articolo di fondo scritto da un Segretario di partito, leggiamo: "Bertinotti, in fondo, è umanamente simpatico. Molto più di Cossutta (…). Dov’è l’errore grande del compagno Bertinoti? Sta appunto in quel compagno. Sta nel dire talvolta cose giuste e magari sacrosante, ma pretende di sostenere sotto la bandiera rossa e all’insegna del comunismo.
Così l’articolo continua: "Bertinotti dovrebbe anche capire che spesso egli difende acquisizioni e strutture ed esigenze che non appartengono alla storia del comunismo in quello che è stato il suo concreto realizzarsi".
L’articolista conclude: "Quando difende, per esempio, lo Stato sociale, quel poco che ne resta in Italia, lo sa o non lo sa, che difende lo Stato sociale per come lo realizzò in Italia nel Ventennio, il di lui odiatissimo Fascismo?".
Confermo: Stato sociale voluto e attuato da Mussolini e da nessun altro!
Stato sociale non completato proprio perché i compagni e i loro alleati liberalcapitalisti ne ostacolarono il pieno compimento, al punto che, pur di fare la guerra al fascismo, si affiancarono ai più potenti eserciti del mondo capitalista e imperialista.
E i compagni ancora oggi si vantano di quella scelta, tanto che in una trasmissione televisiva Pinocchio (giusto un burattino dovevano scegliere) un compagno si esaltò affermando:
"Pur di abbattere il fascismo ci alleammo con la monarchia e con Badoglio!".
E i compagni in sala applaudirono. Che bravi!
Bernhar Shaw, lo ripeto e lo ripeterò ancora e ancora, nei primi anni Trenta profetizzò: "Le cose da Mussolini già fatte lo condurranno, prima o poi, ad un serio conflitto con il capitalismo". E così è stato!
Oggi, nel teatrino politichese italico, assistiamo alla consueta rissa per rubarsi il potere, così da dividere il bottino del povero popolo sovrano (sic!) e, di conseguenza, il concetto di corporativismo è stato faziosamente distorto: lo si è voluto spacciare per rivendicazioni di interessi particolari.
Lo Stato Corporativo mirava, invece, ad una finalità diametralmente opposta e fu il primo tentativo, italiano, di una programmazione unificatrice, di un superamento degli interessi particolari che proprio il sistema dei partiti difende subdolamente.
La Democrazia Corporativa, quella verso la quale l’Italia degli anni Venti e Trenta stava camminando, è una strada tutta italiana, ma preclusa ai grassatori.
Era quella strada che avrebbe concesso, una volta ancora all’Italia di essere portatrice di una nuova civiltà: LA CIVILTA’ DEL LAVORO! Per raggiungerla si doveva vincere la guerra contro l’oro, ma vinse l’oro!

È nostro dovere riprendere quel cammino interrotto dalla violenza delle armi nel 1945.
Il programma è rivoluzionario? Certamente! Ma non c’è rivoluzione più grande e ambiziosa di quella intesa a cambiare un sistema con un altro.

ED ORA UN PO’ DI STORIA: REPUBBLICA-SOCIALIZZAZIONE.
Sono passati quasi settanta anni da quando il 14 novembre 1943, in Castelvecchio a Verona, si celebrò il congresso del Partito Fascista Repubblicano, con il proposito di fissare in un "Manifesto" le linee essenziali del nuovo Stato Repubblicano.
Come la Carta del Lavoro, nata il 21 aprile del 1927, sarebbe divenuta legge dello Stato quindici anni dopo con la promulgazione dei Codici Civili, così il Manifesto lanciato a Castelvecchio, al di là di alcuni contenuti legati alla situazione del momento, doveva essere un abbozzo dei criteri sui quali costruire la futura Costituzione nazionale.
Un preambolo lo definiva il punto 18, ma era di grande rilievo perché confermava il ripudio dello Stato agnostico, proprio delle democrazie parlamentari derivate dai principi del 1789.
Erano trascorsi poco più di due mesi dalla resa che aveva affondato l'Italia nello smarrimento mettendola alla completa mercé dei suoi nemici, ed i convenuti di Verona erano ancora con il cuore in tumulto e ansiosi di cancellare l'onta subita. Nobili e legittimi sentimenti davvero poco adatti alla pacata riflessione necessaria per concepire e studiare certi istituti.
Ed infatti lo stesso Mussolini confidò a Bruno Spampanato: "A Verona non abbiamo visto dei costituenti, ma dei combattenti. Ma forse è meglio".
Alla fine, nel fervore del momento e nell'ansia dell'azione fu approvata per accla¬mazione l'ipotesi di lavoro, e fu un vero miracolo di consapevolezza e di concentrazione, tanto che, se da un canto può uscirne diminuito il valore sotto l'a¬spetto giuridico-tecnico, dall'altro ne è aumentato quello ideale e morale, perché, pur davanti alla materiale sconfitta incombente. per la preponderanza avversaria, quegli uomini vollero gridare al mondo le proprie idee perché a loro sopravvivessero. Fu una vampata di purissima fede per la quale ciascuno dei presenti non avrebbe esitato a bruciare la propria vita, ma nel contempo fu la conferma che l'idea che aveva trasfigurato l'Italia e accesa la speranza in Europa, aveva contenuti inequivocabili e profonde radici nell'animo di quanti in essa credevano.
Nel rievocare dopo quasi sette decenni quel giorno memorabile, non dimenticando che l’azione politica deve essere l’applicazione di una salda concezione dell’Uomo, della vita e dello Stato, ma deve procedere e svilupparsi per operare nella mutevole e complessa realtà come tutto ciò che è vivo, ci chiediamo se quegli assunti possano riproporsi oggi, e negli stessi termini.
La risposta è che il Manifesto di Verona contiene proposizioni tutt’ora valide e pertanto, opportunamente modificato per renderlo idoneo al mutare dei tempi. Da esso possono trarsi buone basi per correggere l’attuale deriva negativa della situazione politica ed avviare la costruzione di un nuovo Stato, guidato realmente dal popolo e non dai grandi commessi, o commissari come in Europa li chiamano, o Ministri in Italia.
In ogni caso tutti più attenti all’economia che non alla politica, alla quale quest’ultima, quella vera in aderenza al volere della plutocrazia internazionale, della quale costoro sono servitori più o meno coscienti.
Ed allora raccogliendo il testimone da coloro che ci hanno preceduto a Verona, e nel solco delle idee da loro espresse, noi vogliamo lanciare un nuovo "Manifesto" con il quale proporre tale Stato, condizione unica per riprendere quel cammino di civiltà del quale l'Italia in passato è stata maestra, da sola o insieme ad altre Nazioni dell'antica Europa. Uno Stato, che possiamo definire ad integrale partecipazione del popolo al potere, e che nell'ambito di un corretto vivere sociale consente ad ognuno di esercitare la propria libertà, e la possibilità reale di partecipare al potere, scevro da falsità, da ipocrisie, e da predomini dell'uomo sull'uomo. Così correggendo i danni prodotti da idee ormai ampiamente dimostratesi errate per non aver costruito la democrazia che si ripromettevano, ma delle oligarchie, e delle peggiori, perché formate da potentati economici attenti più al profitto che non ai destini dell'umanità.
L'errore degli Stati moderni infatti, è stato determinato dall'essersi basati sul noto trinomio: "LIBERTÀ', UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ" dal 1789.
Però l'uguaglianza non esiste in natura, ed affermarla a base della organizzazione sociale è cosa estremamente deleteria, come nel volgere dei tempi ben si è dimostrato e tuttora dimostra, con la conseguenza che la libertà è solo nelle dichiarazioni, mentre al popolo ne resta molto poca, e la fraternità è di fatto sparita.
Occorre invece e per quanto possibile, organizzare uno Stato nel quale nessuno possa artificiosamente impedire ad altri di tentare di concretizzare l'essenza dèi proprio vivere, della quale la propria quotidianità è l'armonica realizzazione, secondo le proprie capacità e volontà, quest'ultima effettivamente realizzata e non solo enunciata:
Riteniamo che per cambiare le cose, si debba considerare che, in quanto parte di un gruppo, l'interesse particolare di ciascun individuo, spirituale o materiale che sia, può trovare migliore e più continua soddisfazione se tanto avviene nel contempo per l'intero gruppo.
Gruppo che diviene popolo quando di tanto prende coscienza, e Nazione quando si accorge dei legami di continuità esistenti fra il vivere di ognuno e quello comune del gruppo stesso, nella consapevolezza delle medesime radici e dell'essere "comunità di destino".
Ciò vuol dire che quel che conta per garantire la libertà, non è l'uguaglianza, ma la socialità, altro grande valore indispensabile per la realizzazione della libertà stessa.
Il suddetto trinomio allora si riassume in un unica parola: SOCIALITÀ, che con esclusione dell'uguaglianza gli altri due comprende, e nella considerazione della quale solo può parlarsi di effettiva sovranità del popolo, visto nelle sue diversità come nel suo insieme, richiedendo però ad ognuno il contemporaneo adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre più vigorosa e più ricca la vita comune.
Ecco il Corporativismo, e con esso la Socializzazione, che soccorrono alla realizzazione di uno Stato nel quale non hanno voce dottrine teoriche e spesso utopistiche, ma realtà effettive, relative ad ogni attività umana intellettuale o materiale, ciascuna rappresentata in una comune assemblea istituzionale e raggruppata in una propria categoria.
Uno solo è il modo per combattere e vincere il capitalismo che subordina l'Uomo alle cose e travalica il campo economico trasformandosi in plutocrazia: eliminare ogni forma di parassitismo sociale e porre come finalità comune le priorità poste dalla realizzazione della libertà e dello sviluppo della Nazione, dando vita ad uno Stato che “Noi” chiamiamo ORGANICO.
Uno Stato del quale ricevere la cittadinanza, possa dal forestiero essere considerato altissimo onore, come era un tempo il vivere con la legge romana.
Sarà naturalmente necessario accantonare l'attuale Costituzione, e pur tenendo conto della nostra allergia per tali documenti ridondanti di belle parole poi inascoltate nei fatti e causa di eccessive e talvolta pruriginose staticità idonee per chi detiene il potere ma non per il popolo, sostituirla con un testo che contenga i principi fonda¬mentali, le forme istituzionali ed il loro funzionamento.

Se i "18 punti" del "MANIFESTO DI VERONA" non pretendevano di essere più che un significativo "preambolo", lo schema del "MANIFESTO PER IL XXI SECOLO" che “Noi” proponiamo dovrà essere un aggiornamento di quel preambolo, lasciandone immutato lo spirito, proseguendone gli intenti e precisando che non si tratterà mai di pesanti macigni, ma di linee sempre modificabili, allorché sarà dato di tradurlo in diritto positivo o in qualunque momento in caso di successive necessità
Aggiungiamo altresì a scanso di equivoci da parte di chiunque, che intendiamo raggiungere il nostro scopo all'interno e nel rispetto delle leggi vigenti.
Un passo dopo l'altro, per l'Italia e l'Europa di domani.

giovedì 13 ottobre 2011

VOGLIAMO UNA LEGGE CHE FERMI LA DELOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE!!!


Italia al bivio...
ASSOCIAZIONE LAVORATORI ITALIANI
Noi siamo gente comune. Siamo come te: gente che si alza ogni mattina per studiare, per lavorare o per trovare lavoro, gente che ha famiglia e amici. Gente che lavora duramente ogni giorno per vivere e dare un futuro migliore a chi ci circonda. Alcuni di noi si considerano più progressisti, altri più conservatori. Alcuni credenti, altri no. Alcuni di noi hanno un’ideologia ben definita, alcuni si definiscono apolitici… Ma tutti siamo preoccupati e indignati per il panorama politico, economico e sociale che vediamo intorno a noi. Per la corruzione di politici, imprenditori, banchieri … Per il senso di impotenza del cittadino comune.


Questa situazione fa male a tutti noi ogni giorno. Ma se tutti ci uniamo, possiamo cambiarla. È tempo di muoversi, è ora costruire insieme una società migliore.